Uno
era zoppo. Si presentava alle sessioni di laurea con la macchina
fotografica a tracolla e scattava, discreto come un falco. Un altro
aveva il codino. Si vedeva che aveva avuto sogni rock, invece si
guadagnava da vivere in provincia con i matrimoni. Alle giostre, da
bambino, ce n'era uno grasso. Forse è lo stesso che nel 1971 mi ha
fotografato a cavallo di un pony in bianco e nero. Avere una foto
triste sul pony è uno dei pochi diritti universali rimasti.
Apparivano
ovunque i fotografi di professione. D'estate battevano le spiagge,
d'inverno immortalavano la buona società in abito da sera a teatro.
Qualche giorno dopo gli scatti comparivano nelle vetrine dei
foto-ottica. Per più di cent'anni i fotografi hanno avuto la
funzione di fissare i momenti importanti della vita – battesimi,
comunioni, foto di classe, lunapark, giostre, lauree, funerali –
appostandosi nei luoghi in cui gli istanti potevano diventare
memorabili.
All'ultima
festa a cui sono stato, i fotografi professionali non erano stati
invitati. In compenso c'erano tantissime macchine digitali e
un'infinità di telefonini. Era in maschera, tema anni 30-40,
c'erano parrucche e cappellini, velette, tirabaci e labbra a
cuoricino, baffi posticci e marinaretti, ma si ballavano i Village
People e Raffaella Carrà, (quando passerà di moda la discomusic
anni 70'?), e si fotografava a man bassa. “Come mi annoia chi si
diverte”, scrisse nel 1955, dopo una festa, Gafyn Llawgoch,
l'anarchico gallese, all'amico poeta Kawasaki. All'ultima festa,
però, a divertirsi nessuno sembrava nemmeno provarci.
Ho
osservato due single quarantenni del tutto impermeabili ai maschi che
non hanno fatto altro per tutta la sera che fotografarsi a vicenda,
oppure insieme, le teste vicine, le facce deformate da un'allegria in
posa. Nessuno si baciava, strusciava e corteggiava. Tutti
parevano impegnati soprattutto ad apparire allegri nelle foto che
postavano con i telefonini, perchè la festa apparisse divertente
agli amici dei social network.
Si
trattava di una specie di recita collettiva a beneficio di Twitter e
Facebook. L'umanità assente, l'umanità altrove, appariva molto
più influente di quella presente in carne e ossa, e per di più in
costume. Perchè ?
Grazie
a internet, oggi, un pubblico non si nega a nessuno. Così tutti
mettono in scena la cronaca mondana di se stessi. E' un'ipnosi
collettiva grazie alla quale ognuno può fingersi famoso e gli altri
possono fingere di credergli. A patto di essere ricambiati. La
soddisfazione trasloca altrove.
Accade
spesso, ormai : per esempio, quando si commenta la TV su Twitter,
preferendo alle battute di chi ti sta vicino quelle di uno
sconosciuto che scrive chissà dove. Ma la distanza è una droga
che dilaga e vanifica il momento presente.
E'
un'onda inarrestabile iniziata decenni fa, quando il telefono diventò
lo strumento per parlare, quando i turisti iniziarono a fotografare i
paesaggi invece di vederli e in sala parto comparvero padri con la
videocamera per registrare la nascita dei figli invece di viverla.
L'idea
è che l'emozione in corso sia meglio archiviarla per goderne in
futuro, al momento giusto, seduti in poltrona, oppure incassarla
all'istante, mostrandola alla propria community perchè tutti si
rendano conto di quanto sappiamo essere allegri o arguti. Ogni
momento, così, appare memorabile. Anche se non viene vissuto.
Perchè se il presente esiste per essere fotografato, pubblicato e
commentato, arretra a teatro di posa.
La
felicità è sempre stata un orizzonte. E' sempre stata
irraggiungibile. Per millenni ha abitato dopo la morte, in
Paradiso. Poi, hanno detto che stava alla fine della storia, nella
società giusta. Oggi è il “Mi piace” di Facebook. Si è
trasferita al di là del touch screen, sui social network dove tutti
sembrano così desiderosi di convincere gli altri di avere una vita
piena da svuotare, istante dopo istante, quella che stanno vivendo.
G.P.
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