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domenica 11 agosto 2013

Orizzonte rosa. Le gravidanze sognate di Imma Vitelli.

L'altra mattina mi sono svegliata, carica di meraviglia. Ho sognato un parto : il mio. Almeno credo. Sembrava un film. Ero lì a gambe spalancate, e sputavo fuori una testolina fragile, rossa di sangue. La vedevo al ralenty, mentre da quel brodo primordiale spingeva per reclamare la sua umanità, un nome e un cognome, una nazionalità, un destino. Sono andata in cucina, di buon umore, e ho pensato : ma va ?
Il giorno prima, il mio inconscio mi aveva consegnato ben altro : io che in piedi, baldanzosa, dicevo a me stessa che ero pronta a saltare dentro una bara.
Sogni grandi. Delicati. Quando ero molto giovane, pensavo alla maternità come a un virus, un pericoloso bacillo da evitare : echi di antichi disastri famigliari. Se sei stata un incidente di percorso, se da piccola hai ascoltato tua madre raccontare alle amiche : “Lei è stata un errore”, allora ti capita. Poi succede che cresci, ti curi, fai pace con tua madre, le chiedi, finalmente : “perchè mi dicevi così, mà ?”
Ti senti fortunata, perchè ci sei riuscita a chiederglielo, è così importante che le parole escano, che siano pronunciate, prima che sia troppo tardi, prima che il tempo faccia il suo corso, prima che ti trovi a confessarti davanti a una lapide.
E però tu rimani quella. Tu rimani quella che in una parte profonda pensa ancora che sia stato uno sbaglio, la tua nascita. Fino a quando una mattina ti svegli e ti ricordi di aver sognato una bara, cioè il brodo primordiale. E il giorno dopo ti svegli e ti ricordi di aver sognato un parto, cioè la celebrazione festosa di una nascita che nella realtà non c'è mai stata ma che accade, miracolosamente, adesso, dono di quella parte profonda di noi umani che gli psichiatri chiamano inconscio e i mistici orientali il tuo dio personale.
Questi miracoli, questi doni, sono essenzialmente delle riparazioni. Inspiegabili, dal di fuori. Accadono tutti i giorni, ogni dove. E' formidabile la nostra capacità di recupero, quando affrontiamo il dolore e ne facciamo altro, una lezione, un esempio, magari, di redenzione.
Mentre ero in cucina, carica di meraviglia, mi tornava in mente una ragazza che ho conosciuto a Banghkok. Si era sposata con un pescatore e aveva scoperto, incinta di cinque mesi, che lui l'aveva contagiata con l'Aids. Non avrebbe voluto una figlia, le donne che non vogliono i figli si portano dentro ferite profonde. Ma aveva scelto di combattere i suoi demoni e alla fine aveva affrontato il trauma rendendolo pubblico, in un ambiente in cui il virus da hiv è anatema.
Si era trasferita in un rifugio dove erano disponibili i farmaci antiretrovirali. Lì, mentre faceva la pìpì, le era sgusciato fuori in scioltezza un batuffolo rosa, perfettamente sano, che sorrideva beato su una stuoia.
A questa vita nuova non aveva ancora dato un nome, e così in attesa di un'ispirazione, la chiamava “Zalone Ma”, la Grande Ciotola, quella che l'aveva accolta al suo primo approdo.

Imma Vitelli

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