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venerdì 6 dicembre 2013

Nell'era digitale, senza impronte digitali.

Da un po' di tempo mi fa male un dito. È un sottile senso di indolenzimento dell'indice della mano destra. Ogni volta che avvito la moka ho svito un barattolo, le giunture faticano e mi sento depotenziato o, peggio, infastidito.
Non credo che sia nulla di grave. Magari capita anche a voi. La sensazione permane anche in stato di riposo. È concentrata sulla punta del polpastrello dove la pelle appare indurita e contemporaneamente più sottile. Se la sfioro con il pollice, la sento liscia e consumata come i piedini delle madonne sui portali in bronzo delle chiese, toccati da miliardi di turisti.
Sarà suggestione, sarà che non ci vedo più tanto bene da vicino, ma a volte ho l'impressione che la punta del mio indice destro, si stia consumando e la mia impronta digitale sia in procinto di scomparire. Senza impronta sarò ancora qualcuno?
Decido di andare a fondo, e ci vado davvero perché sprofondo in un mondo. Scopro che le impronte si formano nel feto al settimo mese e persistono, inalterate e inalterabili, per tutta la vita. Esiste, però, una rara condizione - l'adermatoglifia - in cui le impronte digitali, (dermatoglifi), sono assenti. Fino al 2011 i casi accertati riguardano solo quattro famiglie e uno studio recente, condotto su una famiglia svizzera, ha dimostrato che l'anomalia dipende da una mutazione del gene smartcad1. Non l'avevo mai sentito. Mi domando se è perché ne sono privo.
Leggo che già nel 500 a. C. a Babilonia e in Cina, i contratti erano siglati dalle impronte digitali, e che corinti e romani ricevettero lettere firmate dall'impronta di San Paolo. Molto più tardi, nel 1665, lo scienziato Marcello Malpighi, uno dei padri della microscopia, scrisse il fondamentale "De externo tactus organo anatomica observatio", ma fu soltanto la furia classificatoria dell'Ottocento a fare della dattiloscopica una disciplina scientifica è un metodo di indagine criminale.
Un sistema economico e sociale fondato sulla serializzazione della produzione e del consumo, non trovò altro modo di tranquillizzarsi che trasformare in serie l'intero universo, perfino il male compiuto dagli uomini. Ma l'universo è grande e originale. Per imprigionarlo bisogna categorizzare anche le tracce che lasciamo.
Nel 1903 nel carcere di Levensworth in Kansas, si presentarono due prigionieri identici. Stessa età, stessa tonalità di pelle (scura), stessa faccia, stesse misure antropometriche. Perfino il nome era quasi lo stesso: Will e William West.
La sola differenza fu che lasciavano impronte diverse. Negli stessi anni il matematico francese Victor Balthazard, dimostrò che basta comparare 17 punti per avere la quasi certezza, (una possibilità di errore su alcune decine di miliardi), di sbagliare persona. C'è voluto un secolo perché un professore giapponese, Tsutomu Matsumoto dell'Università di Yokohama, mettesse a punto un metodo per clonare le impronte utilizzando una comune resina plastica e una gelatina alimentare, dimostrando la fallibilità dei sistemi di sicurezza basati sulle impronte digitali.
Torno a osservarmi il polpastrello. Mi dico che, forse, è soltanto consunzione. L'era digitale si chiama così per lo spropositato utilizzo delle dita a cui obbliga. I tasti scompaiono, ogni nostra attività passa sulla punta dell'indice. Su e giù, come chele di insetti strani, come pinze di carne e cheratina, su schermi di silicio i nostri polpastrelli sfiorano, aprono finestre e le chiudono, digitano lettere, sfregando all'infinito, miliardi di volte al giorno.
È meglio tornare all'analogico. Intendo il dito nell'inchiostro, e lo premo su un foglio bianco. Di quella specie di codice a barre aggrovigliato e ritorto che definisce chi sono, non c'è più traccia. Nessuna spirale o ellissi. Tutto appare in nero e indifferenziato. Senza impronta sono ancora qualcuno ?
Afferro una lente d'ingrandimento. Al centro c'è una zona oscura e tondeggiante, che ha la forma familiare di una mela morsicata.

Giacomo Papi

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