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sabato 12 luglio 2014

Ode allo jogging, fantastica "via" di fuga.

L'avevo sempre considerata un'attività un po' perversa. Di quelle fatte
apposta per chi ha qualcosa da espiare, per chi deve punirsi, per chi ha dei buchi neri nell'anima e si illude di poterli seminare dandosi alla fuga, per chi, con la testa, e forse anche con il corpo, non è tanto a posto.
Avevo sempre pensato che fosse un'insana occupazione dei masochisti, per fanatici, per americani cresciuti con un'alimentazione geneticamente modificata, per androidi, che volevano far credere di essere come noi.
Probabilmente l'origine delle mie convinzioni e dei miei pregiudizi risale ad una torrida domenica di luglio del 1979, sull'isola di Ponza. Ero in vacanza con mia madre e una sua amica. "Corsa podistica non competitiva", avevamo letto su un manifesto.
"Corsa podistica" mi sembrò un'espressione bellissima. L'oscurità del suo significato era irrilevante al cospetto della musicalità di quel binomio. "Qualsiasi cosa sia, voglio partecipare", dichiarai. "Sono sei km di corsa", osservò mia madre. "Sei è un numero piccolo", replicai, senza sapere. L'amica si offrì di accompagnarmi e mi ritrovai così sulla linea di partenza, ignara dei miei limiti ma consapevole dell'estrema eleganza di una pettorina numerata.
Pronti, partenza, pum, uno sparo, via. Su e giù a perdifiato, una salita, una discesa, un tornante, un'altra salita, un altro tornante. E poi, intorno a me, tifo, voci, risate, urla, piccoli, grandi, uomini, donne, bambini, tutti eleganti quanto me, ma molto, molto più veloci, resistenti, allegri, incuranti del caldo, del fiatone, del cuore che scoppia.
Al terzo tornante, non più di cinquecento metri dal via, capii che ero fatta di una pasta friabile, che la corsa podistica nasconde, dietro un bel nome, una pura follia, che un numero stampato sul petto non fa di te un androide masochista. Mi fermai, mi strappai di dosso la stupida pettorina, la lanciai rabbiosamente sull'asfalto e lasciai che l'orda festante di alieni, ne facesse brandelli calpestandola.
Promisi a me stessa, quella domenica di luglio, che mai più mi sarei sottoposta a quella pratica sfinente e tribale, mai più avrei chiesto alla mia pasta friabile di farsi quello che non era, mai più avrei ceduto alle lusinghe di un binomio eufonico.
Mantenni la parola data fino ad un'altra domenica di luglio di 31 anni dopo, durante una vacanza negli Stati Uniti, a seguito del marito workaholic. Avevo, allora, un figlio di sette anni, uno di quattro,uno dei sei mesi e soprattutto, una vicina di casa di nome Brenda, single, ipercinetica e dotata di tricipiti d'acciaio.
"Vado a fare jogging. Perché non vieni?" "Jogging ? Vuoi dire correre ? Preferisco vivere, grazie". "Dai, su. Non vado veloce. E non corro mai oltre un'ora". "Un'ora ? No, grazie, Brenda. Io vengo da un altro continente, da un'altra cultura, un'altra alimentazione. Non credo di ...".
Vinse Brenda che mi prese per mano e mi trascinò con sé in quello che
consideravo il lato oscuro del fitness.
Da allora corro sempre, con costanza maniacale, in estate in inverno, con voluttà e passione, con la musica nelle orecchie, una ridicola coda di cavallo e un look sciatto e inguardabile perché, nella mia personale visione di questo amore tardivo, si tratta di pura sostanza e niente forma.
Corro generalmente vicino a casa, lungo un Naviglio. Incrocio papere, nutrie, se sono fortunata anche qualche ratto, e altri tizi come me, generalmente meglio vestiti e senza coda di cavallo, ma con lo stesso sguardo estatico e assente.
Perché, ho scoperto, correre dà dipendenza come il fumo, l'alcol, il cioccolato bianco e la metanfetamina. Perché regala euforia, sprazzi di onnipotenza e una certa resistenza fisica che nella vita viene sempre utile. Perché fa bene, dicono. Consente di pensare ai fatti propri, di isolarsi, di transitare dentro una bolla.
E, soprattutto, è una fantastica via di fuga, quando non basta chiudersi a chiave in bagno.



Claudia “Elasti” De Lillo

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