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mercoledì 17 giugno 2015

2 defechi per Sergio Taddei posson bastare ...

Alcuni di voi saranno a conoscenza della vicissitudine occorsami con la SPE, la concessionaria di pubblicità del “Resto del Carlino”, con il suo rappresentante Gherardo Boccato, il responsabile amministrativo Emilio Gadaleta e soprattutto con il suo avvocato, tale Sergio Taddei del foro di Bologna, un maleducato, incompetente, arrogante e bifolco. Per chi non è a conoscenza cliccate QUI .
Al Sergio Taddei inviai alcune corrispondenze cartacee, dopo che mi si è sempre negato al telefono, in cui lo invitavo a desistere nell'inviare corrispondenze all'indirizzo dei miei genitori. Inviti ahimè vani tant'è che nell'ultima lettera che spedii al suo studio legale, ne misi in discussione i natali ipotizzando, oltre al meretricio, altresì un esercizio originale della bocca della madre del Taddei, essendo appunto di Bologna, patria incontrastata del “buchen”.
Al che il Sergio Taddei si sentì diffamato tanto da proporre denuncia alla competente autorità e in seguito della stessa dovrei presentarmi il 18 giugno 2015 al giudice di pace di Bologna, per rispondere appunto sull'ipotesi di reato di diffamazione.
Ora il 18 giugno non mi presenterò a Bologna, essendo in altre faccende affaccendato, ma ho dedicato questa ulteriore lettera, che ho già spedito allo studio legale Taddei di Bologna, via De Toschi 11, e che ora voglio pubblicare qui sul blog per mettere in guardia il maggior numero di persone sull'incompetenza di tale avvocato, e anche per farvi fare 2 risate. Ora navigando in rete, sono venuto a conoscenza delle belle prodezze di suo figlio Filippo, (clicca QUI e QUI), il solito ammanigliato paraculo del PD, leggi partito comunista, ed ora capisco anche perché il Taddei padre sia l'avvocato della SPE, che è uno dei tanti collettori di denaro del partito comunista emiliano.
Premetto che non credo assolutamente alle minacce di morte al figlio Filippo. Sono sicuro che se le è fatte da solo queste minacce al solo scopo di idolatrare il suo operato, nella completa consapevolezza che il Jobs Act è una “cagata” magagalattica, che ci porta lontano dalle politiche occupazionali europee e soprattutto che non creerà alcun nuovo posto di lavoro in Italia.
E' uno sport nazionale itagliota, quello di far parlare di lavoro persone assolutamente incompetenti e che non hanno mai lavorato, vedi appunto Filippo Taddei che essendo figlio di cotanto padre, sarà sicuramente un incompetente e un fannulone totale.
Leggetevi la lettera e buon divertimento ! Se ci saranno novità ve le comunicherò.

Ciao Taddeo, come stai ? Sono Gallimberti.
E' un po' che non ci si sente. Tu immaginerai sicuramente perché ti scrivo. Per il 18 giugno, per l'udienza.
Ora leggendo gli stralci della lettera oggetto dell'azione penale, (ehhhh, hai sentito che termini?), ho fatto un'ulteriore considerazione. Sai che io ogni tanto penso ...
E' che Bologna, oltre ad essere universalmente nota per l'arte del fellatio, di cui tua madre era assidua praticante, è anche famosa per la proverbiale tolleranza al mondo degli omosessuali, i “busoni” come vengono amichevolmente chiamati dai bolognesi, o come si dice oggi è una città “gay friendly”.
Ora la considerazione che faccio e che tuo padre deve essere stato uno dei più grandi “busoni” di Bologna e provincia, e dall'unione con tua madre, grande meretrice bolognese e regina del fellatio, sei nato tu, Sergio Taddei.
Ora il 18 giugno non sarò a Bologna, perché io devo lavorare e produrre, non come te che campi sulle disgrazie della gente, e col culetto ben parato nelle strutture del PD, leggi SPE.
Ma comunque ho deciso di dedicarti la giornata del 18 giugno, a modo mio si intende.
Ora il 18 giugno, quando mi alzerò dal letto, alle 6 di mattina, la prima cosa che farò è la cacca. Ecco quella cacca la dedicherò a te !
Poi prenderò l'orzo con i biscotti, e dopo un po' dovrò fare una seconda cagata, questa volta più abbondante della prima. Ecco, questa seconda cagata la dedicherò a te, a tua madre e a tuo padre.
Dopodichè, ogni pisciata che farò durante la giornata, sarà dedicata a te, Avv. Sergio Taddei, alla tua enorme professionalità e competenza, e ti garantisco che ne farò tante di pisciate. Berrò l'acqua Rocchetta !
Quindi se nella giornata del 18 giugno, ti capitasse di percepire un senso di umidità al volto, puzza di vasca biologica e la bocca impastata non guardarti intorno, ma pensa a me e a tutte le dediche che ti farò.
Per concludere ti auguro di passare gli ultimi anni della vita, dentro e fuori dagli ospedali, e di mangiarti tutti i soldi in medicine.

Addio stronzo !!!
E questo è veramente un link utile, articolo pubblicato dal "Manifesto": http://ilmanifesto.info/jobs-act-il-piu-costoso-flop-di-renzi-ha-sbancato-il-bilancio-statale/

mercoledì 10 giugno 2015

Attenti agli hackers. E non fidatevi delle password.

Era un lunedì mattina come gli altri. Stavo andando a scuola, con i miei figli. Si parlava del perché, dopo la pioggia, lungo quel tragitto, spuntano tanti vermi - ne avevamo contati 52 e non eravamo neppure a metà strada -, dei vantaggi di una vita da vampiro, della superiorità del cioccolato rispetto ogni altra sostanza commestibile nell'universo e di altre simili faccende metafisiche, che abitualmente occupano le nostre conversazioni in quei 15 minuti.
Una vibrazione nella tasca. Un SMS della mia amica Alessandra. Un oscuro presagio dell'incubo che mi avrebbe inghiottito di li a breve. "Credo che tu abbia un virus nella posta elettronica. Controlla".
"E tra il Gianduja e il bianco?". "..." "Mamma che c'è?". "Niente". "Allora perché non mi rispondi?". "Scusa, qual'era la domanda?".
Mentre disquisivamo di vermi, vampiri e cioccolato, dal mio account era partito, a mia insaputa, un messaggio che aveva raggiunto tutti i miei contatti : mia madre, mia suocera, il capo del personale dell'ufficio, le maestre dei miei figli, un vicino di casa, il fabbro e la mia ex estetista, gli amici, Andrea Bernasca che mi faceva copiare le versioni di greco al liceo, un'imprenditrice che produce liquirizia, l'elettrauto. Insomma tutti quanti, vicini e lontani.
"Mi trovo casualmente a Liverpool. Ho perso il portafoglio e la Trebisonda. Vorrei tornare a casa ma non ho una lira in tasca. Pertanto, amici miei che abitate nel mio cuore oltre che nel mio indirizzario, mandatemi un po' di soldi. Un giorno, forse, ve li restituirò. Per sempre vostra e grata Elasti". Questo era il senso di quel messaggio. Bizzarro, certo. Vagamente imbarazzante. Piuttosto implausibile. Soprattutto prodromo di successivi nefasti eventi.
Il virus o il genio del male che mi ha spedita a Liverpool, subito dopo ha cambiato i connotati e le credenziali del mio account in modo da renderne impossibile il suo recupero, e, infine, lo ha cancellato e ridotto in cenere.
Dentro quella casella di posta elettronica c'erano i miei ultimi cinque anni, oltre agli indirizzi della mamma, del Bernasca, del fabbro e di moltissime altre persone per me fondamentali. C'erano i carteggi, spesso demenziali, tra me e mio marito, le comunicazioni tra i genitori della V C, corrispondenza di lavoro, fotografie, ricordi, i messaggi di mio papà che non c'è più, gli inviti alle feste dell'asilo, le liste della spesa, gli amori di un'amica single, le congratulazioni per un bambino appena nato, fotografie, filmini. C'era la mia vita.
Certo, una vita che non si mangia, non si annusa e non si può toccare, ma non meno densa e importante.
Mi sono rivolta a Google, ho riempito moduli, ho spedito dichiarazioni in cui giuravo che io sono io, mi sono iscritta a ferventi forum di sventurati, vittime, come me, di questa beffa crudele e criminale.
Sono stata assalita dal panico. E quando ho preso coscienza, alla luce dell'esperienza altrui e del vuoto in cui cadevano le mie richieste di aiuto, che quella scatola con cinque anni dentro era stata inghiottita da un buco nero e difficilmente qualcuno me l'avrebbe restituita, il panico ha lasciato il posto a uno sconforto incredulo e lacrimoso e a un senso di perdita rabbioso e miserabile.
Non pensavo si potesse stare così male per una stupida, seppur vitale, casella postale. Non avevo capito quanto fossero interconnessi il mondo fuori e quello dentro una casella.
Ero convinta che ci fosse un posto in cui stare tranquilla, un inespugnabile backup di me stessa. Mi sbagliavo, ci sbagliamo in tanti a fidarci, a sparpagliare pezzi importanti di noi qui e lì senza riunirli e fare l'appello con regolarità, a sopravvalutare una password che si chiama come il gatto.
Ora sono uscita dal lacrimoso sconforto. Forse un po' più forte, certamente più saggia. Mi consolo con la contemplazione, insieme ai miei figli, dei vermi tra casa e scuola, con lo studio della vita felice dei vampiri e, naturalmente pensando alle inespugnabili, quelle sì, scorte di cioccolato nella dispensa.


Claudia “Elasti” De Lillo

sabato 6 giugno 2015

Orizzonte rosa. Donne soldato, vittime senza cicatrici.

Fu un martello che costrinse Diana a rivelare il segreto che aveva divorato la sua vita.
Era un qualsiasi fine settimana, nella sua California, quando il fidanzato le chiese di accompagnarlo in un Home Depot, uno di quei cavernosi, infiniti empori di tutto. Fra le dozzine di reparti, era proprio la sezione dei martelli che lui puntava, e quando la bella, ordinata esposizione di quegli attrezzi le si parò davanti, il panico l'assalì.
Cominciò a sudare, a sentire il cuore vacillare, a perdere il controllo delle gambe. Svenne. Quando si riprese, più tardi nel pronto soccorso dell'ospedale, dopo che i primi esami d'urgenza avevano confermato che non c'erano cause acute per il suo collasso, si decise a raccontare la sua storia.
Martelli erano appesi alla parete della stanza nella base americana di Bagram, in Afghanistan, quando il capitano che comandava il suo reparto l'aveva afferrata per il collo, l'aveva rovesciata sulla scrivania alla quale lei lavorava, e con tutto il peso dei suoi 90 chili per un metro e ottanta l'aveva violentata. Di tutte le schegge di ricordi che l'avevano trafitta in quel momento, erano i martelli visti alle spalle di quell'uomo che si erano fissate nella memoria. E funzionavano da detonatore del panico.
Diana aveva fatto quello che gli istruttori, i superiori, i regolamenti le avevano insegnato prima di arruolarsi in Marina. Era andata la notte stessa all'ospedale della base. Il medico di servizio aveva annotato le ferite, le ecchimosi, le abrasioni. Non c'erano dubbi, aveva concluso. Era stata oggetto di un rapporto sessuale completo e forzato.
Poi arrivò il momento della scelta. C'erano due possibilità, le fu spiegato : la "denuncia per apertura di un'inchiesta", con indagini, deposizioni, interrogatori ed eventuale rinvio a giudizio davanti a una corte marziale. Oppure la "denuncia senza inchiesta", riservata alle autorità militari, anonima, affinché conducessero ricerche interne, riservatissime e mai pubbliche. Dopo un anno tutta la documentazione sarebbe stata distrutta. La notte dei martelli si sarebbe dissolta nel nulla.
Diana scelse la seconda strada. Adorava il proprio lavoro, sognava di entrare nelle forze speciali. Sapeva che se la sua denuncia fosse divenuta pubblica forse, soltanto forse, il capitano che l'aveva buttata sulla scrivania sarebbe stato radiato e condannato, ma che certamente, senza alcun dubbio, la sua carriera nella US Navy sarebbe finita a 24 anni. E per mesi e mesi lei sarebbe stata al centro di interrogatori, contro interrogatori, e esami e contro esami.
Ma la ferita non si sarebbe più rimarginata. Il capitano era sempre lì e aveva cominciato a tormentarla con note di demerito nella sua cartella, ritardi al lavoro, disordine nell'uniforme, scarsa collaborazione, quelle mille punture di vespa che distruggono la carriera e una vita.
Dalle compagne, alle quali non aveva detto nulla, non potevano venire solidarietà né sostegno. Tutte sanno, nessuno parla.
Resistette per tre mesi, Diana, poi chiese di essere rimpatriata. Il medico che l'aveva esaminata nella notte dei martelli firmò la sua domanda di congedo per ragioni di salute, senza specificare. Lei raccontò in giro di aver un nodulo sospetto al seno, che non era vero.
Tornata in California, cominciò la vita del silenzio. Non disse nulla al fidanzato e neppure ai genitori. Le visite frequenti all'ospedale erano spiegate con i controlli al seno, per non rivelare che in realtà vedeva uno psichiatra. Aveva trovato lavoro come cameriera, ma quando al ristorante dovevano fare lavori e comparivano i carpentieri con i martelli, lei si dava malata. Le pareti della sua casa erano spoglie, perché al fidanzato era stato proibito di appendere quadri.
Oggi, si tormenta nel pensiero di avere sbagliato a scegliere la "denuncia senza inchiesta", insieme con altre dozzine di donne ex militari nelle sue condizioni. Ha detto la verità alla famiglia, alle amiche, al fidanzato e con il loro aiuto si sta diplomando infermiera.
Vuole lavorare in un ospedale militare, nei reparti dove trattano le vittime senza cicatrici o protesi, di una guerra che continua a martellare l'anima, anche quando risparmia i corpi.


Vittorio Zucconi