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sabato 7 novembre 2015

Orizzonte rosa. Quel cassetto inviolabile, la nostra zona rossa.

Per quanto una pensi di non avere granché da nascondere, per quanto racconti, senza veli e senza vergogna, di sé e del proprio mondo, per quanto apra con entusiasmo e spudoratezza la sua casa e la sua cucina, convinta che, come dicono alcuni, the more the merrier e che, come dicono altri, nel più ci stia il meno, per quanto covi il sogno recondito di vivere in una comune in cui siano banditi le porte e il concetto di proprietà, esiste sempre un giardino, una stanza, un cassetto inviolabile.
Tutti noi, per quanto aperti e disinibiti, abbiamo un posto intimo e privato, un terreno, più o meno ampio, recintato e invalicabile, una zona rossa il cui ingresso è severamente vietato agli estranei.
La mia zona rossa è il tutone diserotizzante che mi infilo quando lo sfinimento vince sul senso estetico. È la domenica, quando a mezzogiorno non siamo ancora vestiti e ci trasciniamo come zombi in preda all'accidia. È una cena a base di pane, prosciutto e cioccolato, è la chiave nella toppa che si chiude senza fare rumore perché la solitudine diventa un'urgenza, è il tango con il casquet ballato con i miei figli in corridoio, è la radio a tutto volume mentre preparo le polpette ancheggiando, è il ripasso dei verbi con mio figlio, quando lui spegne il cervello e io accendo la strega urlante.
La mia zona rossa sono le mattinate da homeworker in cui traccheggio e mi perdo per ore, per poi, in preda a senso di colpa e livore, chiudermi in uno stress iper produttivo e velenoso. Sono l'insofferenza verso quattro maschi ingombranti e chiassosi, il pozzo nero che mi artiglia, l'euforia molesta e il malumore improvviso, ancor più molesto. La mia zona rossa siamo io e la mia famiglia, quando scaviamo il fondo del barile di noi stessi e troviamo le ragnatele, il buio e i mostri.
Per il secondo anno consecutivo, abbiamo deciso, per compensare le assenze dell'economista marxista itinerante e le presenze della mater familias stanzialmente sfinita, di accogliere per qualche mese una ragazza alla pari. È americana, è cresciuta in una comunità hippie del New England, sogna, da grande, di aiutare gli adolescenti disorientati, è lieve, ridanciana, discreta. Praticamente perfetta. E poi è femmina e per me, abituata al testosterone e alle bizze di quattro coinquilini maschi, la convivenza con una donna rappresenta pura beatitudine.
E nonostante non sia un'esperienza nuova, avevo dimenticato cosa significhi accogliere un'estranea sotto il mio tetto. Non sto parlando dei cambiamenti nella quotidianità spiccia - l'acquisto di 4 litri di latte in più ogni settimana, l'introduzione del burro di noccioline nella dispensa, le visioni apocalittiche quando esce la sera e alle due di notte non è ancora rientrata - ma della necessità di aprire la zona rossa e di mettersi in gioco, senza ritegno e senza veli.
Perché è possibile fingere di essere quello che non sei, mantenere un contegno, evitare il tutone diserotizzante e la metamorfosi in strega urlante, essere promozionale ed esemplare, per un tempo limitato.
Ma quando qualcuno si insinua in modo capillare e cronico dentro il terreno recintato della tua intimità, le barriere inevitabilmente cadono una dopo l'altra e la tua essenza, pubblicamente mascherata dietro una patina di rispettabilità, esce allo scoperto prepotente e impudica.
Così, a un mese dal suo arrivo, lei è ormai parte di noi, ha, forse suo malgrado, poveraccia, scandagliato gli abissi dei nostri lati oscuri, assistito alla caduta di ogni resistenza, conosciuto ciò che nemmeno mia madre, grazie al cielo, conosce.
Attraverso il suo sguardo sornione, ho guardato la mia famiglia allo specchio. E talvolta è stato scioccante. È una pratica di autocoscienza utile e costruttiva, per quanto destabilizzante.
Dopo questi 30 giorni lei non è scappata, io mi faccio molte più domande e mi metto parecchio in discussione. Forse è un buon risultato. Senz'altro è terapeutico.


Elasti

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