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martedì 26 aprile 2016

25 Aprile festa della liberazione, ma da che?

Sono contento che oggi, in linea col trend festivo, la tv abbia trasmesso molti film leggeri. A costo di passare per ammiratore dei criminali e di essere confuso con qualche nevrotico epigono del revisionismo, sono contento di essere sopravvissuto alla retorica del 25 aprile. Se questa data fosse diventata l’invito a riflettere su una tragedia, e quella subita dagli italiani fu tragedia in proporzioni immani, l’avrei celebrata anch’io. Ma da meridionale non m’identifico affatto con quegli eventi terribili, per chi perse e per chi vinse. Non mi identifico affatto con la macelleria messicana (così la definì Montanelli) che si scatenò a partire dal 25 aprile 1945 e durò - disturbata poco e male dai carabinieri, dai reparti dell’esercito rimasti fedeli allo Stato e dalle truppe alleate, per fortuna angloamericane e non dell’altra parte vincitrice, di stanza sul nostro territorio - per un altro anno buono. Qui la bonomia di Guareschi, che cercò di incoraggiare una sorta di riconciliazione attraverso i suoi romanzi, c’entra poco. Anzi, non c’entra affatto. Infatti, la storia dice altro: poco vicino alle terre dove Don Camillo e Peppone passavano dai cazzotti agli abbracci ci fu una carneficina in nome della “liberazione”. Già: per fortuna eravamo un paese occupato, altrimenti chi ci avrebbe liberato da liberatori che non erano neppure tali? Chiedete a qualche friulano, che magari ricorda le vicissitudini di genitori e nonni alle prese con gli abusi del IX corpus dell’esercito jugoslavo, che significato possa avere per loro il 25 aprile.
Ma non voglio insistere con memorie tragiche, che stentano ad essere stemperate in una storiografia civile perché ancora esistono fondazioni e istituti che mangiano fondi pubblici in nome di un antifascismo ridotto a slogan. Voglio, piuttosto, soffermarmi su alcuni “dettagli” giuridici, solo da noi considerati tali, che tuttavia in qualsiasi altro paese civile sarebbero la parte basilare di qualsiasi racconto storiografico credibile. Il 25 aprile non fu una “liberazione”, come ci si vuol far credere, ma una capitolazione. Cioè una resa quasi senza condizioni di un paese ad altri paesi avversari. A prescindere che questo paese fosse “occupato” militarmente dai tedeschi, che poi non erano tutti nazisti ma in larga parte persone comuni strappate alla vita di tutti i giorni da una guerra assurda, e dalle autorità legittime. Ora, al di là della propaganda spacciata per storia, ribadisco un altro dettaglio: se quella sconfitta non comportò la cancellazione dell’Italia dalle mappe politiche non fu merito della resistenza - quella “bianca” e “verde”, composta da cattolici, ammutinati dell’esercito i quali, in effetti, fecero azioni militari vere e proprie, e quella “rossa”, che, priva di vere competenze militari, praticò soprattutto azioni di sabotaggio – ma del fatto che, comunque, al Sud esisteva un altro Stato italiano legittimo sostenuto dagli angloamericani. Perché celebrare solo i partigiani? E quei soldatini del Regno del Sud, che continuarono a cadere a migliaia sulla Linea Gotica per riunificare il paese, che erano? Figli di…?
Ma noi restiamo il paese dove è più facile fare gli ingegneri informatici che gli storici, perché i primi non vengono di solito censurati. Restiamo il paese dove le patacche passano per gioielli e, ciascuno ai suoi livelli, si viene fischiati e minacciati se si contraddicono le vulgate: toccò prima all’ex partigiano azionista Giorgio Bocca, che si dimostrò critico verso la resistenza e ne contestò aspramente la componente comunista; poi a Renzo De Felice, autore di un corpus storico che i suoi detrattori nemmeno se lo sognano; è toccato, infine, a Giampaolo Pansa, buon ultimo nel turbare la vulgata a suon di patacche troppo spesso spacciata per storia.
La storia è troppo importante e troppo vasta perché possano scriverla solo i vincitori, macchiatisi spesso di nefandezze simili a quelle attribuite ai vinti.
Io abolirei il 25 aprile e, semmai, lo sostituirei del tutto con l’unica, vera festa che possa rappresentare tutto un popolo: il 2 giugno. È triste vedere l’anniversario della Repubblica, scelta comunque da tutto un popolo, ridotto ai minimi termini: una parata militare e qualche alzabandiera timido davanti alle prefetture. Eppure la vera festa democratica è questa, perché tutti, persino i caricaturali eredi degli ex fascisti, possono identificarvisi. Tant’è: ma da un paese privo di memoria storica, che si appresta a buttare a mare la Costituzione del ’48 e le sue libertà in nome di una cultura strapaesana delle autonomie (fallimentari, oppressive, sciupone e ladre molto più del vituperato Stato “accentratore”), ci si può aspettare questo e di peggio.
Seppelliamo i nostri morti e diamo loro l’eterno riposo. Ma ricordiamoci pure che le celebrazioni “divisive”, che esaltano gli uni senza meriti e attribuiscono agli altri anche le colpe che non hanno avuto, sono la strada sbagliata. Basta con la retorica e, se proprio vogliamo parlare ancora di storia, facciamolo coi libri e i documenti alle mani.
Tutto il resto è chiacchiera.

Saverio Paletta


domenica 24 aprile 2016

Mode British: la "mindfulness" cioè l'attenzione consapevole.

"Gli inglesi non essendo un popolo particolarmente spirituale, per darsi un'idea di cosa fosse l'eternità hanno inventato il cricket" si dice abbia detto George Bernard Shaw. Io, essendo stata da poco a Londra per l'uscita nel Regno Unito del mio libro Cambiare passo, oltre che per una riunione con i direttori di tutte le edizioni internazionali dell'Huffington Post, sono felice di poter dire che, per quanto riguarda le cose dell'anima, dai tempi della battuta di Shaw gli inglesi si sono evoluti un bel po'.
La celebre impassibilità britannica comincia ad ammorbidirsi. Da un lato il paese celebre per la sua orgogliosa indipendenza e per lo zelo con cui perpetua le sue antiche tradizioni, non è estraneo ai mali e alle sofferenze che derivano dalla moderna concezione - decisamente difettosa - del successo.
Dall'altro, e per diversi aspetti, i britannici hanno superato i fratelli minori yankee, sia per la consapevolezza dei problemi che hanno di fronte, sia nell'adottare le soluzioni.
Le prove che anche l'isola britannica è caduta nella trappola del burnout, o sfinimento da superlavoro, abbondano. Per riassumere : oggi nel Regno Unito, lo stress è la principale causa di malattie e provoca la perdita di oltre 100 milioni di giornate lavorative, che alle imprese costano un totale di 1,54 miliardi di euro. Tra il 2007 e il 2012, le prescrizioni di farmaci antidepressivi sono passate da 33,8 a 50,2 milioni, con uno sconcertante aumento, dal 1991, del 495%. Quasi un terzo delle donne britanniche dichiara di accusare stress in modo costante.
Proprio come negli Stati Uniti, in Inghilterra, il settore dei servizi finanziari è diventato un po' il simbolo del burnout. L'anno scorso, ha attirato l'attenzione sul problema un clamoroso fatto di cronaca : nell'agosto del 2013, Moritz Erhardt, uno stagista della Bank of America Merril Lynch, è stato ritrovato morto nel suo appartamento dopo aver lavorato per qualcosa come 72 ore consecutive. A stroncarlo è stata una crisi epilettica, e sebbene il medico legale Mary Hassel abbia dichiarato che non c'era modo di stabilirlo con certezza, ha anche aggiunto che "uno dei fattori scatenanti delle crisi epilettiche è l'esaurimento psicofisico, ed è possibile che, avendo Moritz lavorato in modo così frenetico, sia stata proprio la stanchezza ad innescare la crisi che l'ha ucciso".
In quelle 72 ore, Moritz Erhardt era tornato a casa ogni notte alle cinque del mattino, si era fatto una doccia veloce ed era tornato alla scrivania. Pare che negli ambienti finanziari definiscano questo genere di comportamenti "La giostra magica". Va da sé che sarebbe davvero magico se un simile modo di lavorare, non avesse effetti così distruttivi.
Il caso ha allargato un dibattito che era già in corso, quello sulla necessità di modificare questa cultura del lavoro devastante nel Regno Unito, uno dei paesi in Europa in cui ai lavoratori spetta la minor quantità di ferie retribuite. E anche se la strada da fare è ancora lunga, sono già molti i passi avanti fatti.
Stando ai dati del National Health Service, il numero di persone che decide di dedicarsi alla meditazione, sta raggiungendo livelli da record. E, cosa altrettanto importante, la consapevolezza va diffondendosi anche tra coloro che si occupano di politica a livello nazionale. Il mese scorso ha visto la nascita di una commissione bipartisan, per studiare le possibili applicazioni della mindfulness, o attenzione consapevole, nei campi della giustizia penale, della salute dell'istruzione.
Durante un nostro incontro, Lord Andrew Stone, ha raccontato quanto la mindfulness l'abbia aiutato quando è stato inviato al Cairo per incontrare alcuni leader militari egiziani, durante le rivolte che qualche tempo fa sono dilagata nel paese : "Ha davvero fatto la differenza".
La deputata Tracey Crouch, co-presidente della commissione che studia i rimedi allo stress, ha spiegato che l'attenzione consapevole non solo le ha permesso di smetterla con gli antidepressivi, ma la resa un politico migliore : "Da quando ho cominciato a coltivare l'attenzione consapevole i miei interventi alla camera sono molto migliorati. Trasformare la società con la mindfulness credo che oggi sia realmente possibile".


Arianna Huffington

giovedì 21 aprile 2016

Modi di dire 25.

Si dice . . . “darsele di santa ragione”

Vuol dire picchiarsi duramente, senza risparmiarsi percosse e violenze, e oggi, in senso figurato, anche avere una disputa verbale aspra fino alla collera. L'origine di questo modo di dire fa riferimento
ai metodi educativi repressivi un tempo diffusissimi nei collegi, nelle scuole, nei luoghi di pena e anche fra le mura domestiche che, senza particolari remore, prevedevano punizioni psicologiche e corporali anche violente. Questi maltrattamenti venivano giustificati ideologicamente da un superiore scopo educativo e persino di elevazione spirituale, (la “santa ragione”), che dovevano far superare il rifiuto psicologico dell'educatore di far del male a una ragazza oppure a un bambino inermi.


Si dice . . . “non avere né arte né parte”

Si riferisce a chi non dimostra qualità e competenze particolari e nemmeno dispone dei mezzi necessari per emergere nella vita: è insomma un povero diavolo. L'origine del motto è medioevale. Il termine “arte” fa riferimento alle corporazioni che riunivano i lavoratori in base al loro mestiere e alle attività; per parte si deve intendere il “partito”, sia come appartenenza a una parte politica, (che aveva quindi potere nella società), sia come diritto a una eredità patrimoniale. Pertanto, non possedere né arte né parte, equivaleva a non poter avere alcun ruolo nella comunità di quel tempo.


Si dice . . . “fare filotto”

Significa ottenere dei risultati positivi attraverso una serie di eventi in successione, come chi in uno sport vince molte partite consecutive, oppure chi ottiene il massimo dei voti in una sequenza di esami universitari. Il modo di dire deriva dal gioco del biliardo detto “all'italiana”, in cui “fare filotto”, vuol dire fare abbattere dal pallino o dalla palla avversaria una fila di piccoli birilli allineati al centro del tavolo in numero di 5, o di 9 nella “goriziana”. Tutto ciò conferisce a chi lo effettua un buon punteggio in partita.


Si dice . . . “prendere per il naso”

L'espressione “prendere o menare per il naso” qualcuno significa buggerarlo, farsi beffe di lui. Il primo significato della locuzione era un altro ossia: “Condurre in giro qualcuno e fargli fare ciò che si vuole”, es: “Mi tiri come un bufalo pel naso”, Ludovico Ariosto, Satire. E qui l'origine del modo di dire che deriva dall'uso, già presso gli antichi greci, di condurre i bovini tirandoli per l'anello infilato nel naso. Ciò consente infatti di condurre facilmente l'animale, indotto dal dolore ad assecondare i movimenti.



Si dice . . . “fare cilecca”

Vuol dire fallire, fare fiasco, venire meno nel momento in cui si dovrebbe meglio figurare. Nel gergo militare si riferisce ad armi che si inceppano al momento di sparare; si usa anche per alludere a una mancata prestazione sessuale. In origine il termine “cilecca”, o scilecca, significava beffa, sberleffo, (forse dal latino illicium, “adescamento”, o dal tedesco schielauge, “occhio strabico”, nel senso di fare gli occhi storti a mò di presa in giro), e si riferiva in particolare alla burla consistente nel ritirare all'ultimo momento la mano con la quale si porge qualcosa. Quindi per estensione un disilludere, un non mantenere una promessa.



Si dice . . . “una rondine non fa primavera”

Il detto popolare “una rondine non fa primavera” ha il seguente sottinteso: un singolo evento positivo non basta a far trarre conclusioni generali favorevoli. Le rondini infatti sopraggiungono in genere in grandi stormi, (i primi ad arrivare in Italia dal NordAfrica e dalla penisola araba in genere sono i balestrucci), segnando l'arrivo della bella stagione. Una sola rondine visibile in cielo può aver perso la cognizione spazio-temporale e dunque restare isolata. Il proverbio è erede della locuzione latina “Una hirundo non facit ver”, ma è di origine greca. Ad esempio nell'opera Etica Nicomachea di Aristotele, (IV sec. a.C.), il filosofo spiega: “Come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno o un breve spazio di tempo non fan felice nessuno”:


Si dice . . . “rompere le uova nel paniere”

Significa rovinare con un proprio intervento, i progetti pazientemente preparati da qualcuno ancor prima che si realizzino. Il modo di dire è di evidenti origini contadine. Il “paniere” citato nel detto infatti, va inteso come la cesta o la cassetta approntata dall'allevatore che le galline ovaiole, a partire dai 4/5 mesi di vita circa, utilizzano come nido per deporre le uova. Le migliori galline, che sono in grado di deporre un uovo al giorno per un anno e mezzo, quando si pongono alla cova nel paniere, lo fanno per circa 20 giorni. Ecco quindi che l'espressione richiama il distruggere qualcosa, prima che si concretizzi.


Si dice . . . “zona Cesarini”

L'espressione indica gli ultimi momenti di una partita di calcio o di una sfida sportiva e, per estensione, la fase finale di un evento emozionante. La locuzione fu coniata dal giornalista Eugenio Danese con riferimento a Renato Cesarini (1906-1969), attaccante oriundo argentino della Juventus e della Nazionale. Cesarini segnò due gol al 90' nel giro di sette giorni e la seconda fu la rete della vittoria (3-2) per gli azzurri dell'incontro di Coppa Internazionale Italia-Ungheria, il 13/12/1931. La domenica successiva Danese descrisse sul giornale “Il Tifone” un gol avvenuto in “zona Cesarini” riferendosi a una rete decisiva segnata all'89' della partita di campionato tra Ambrosiana/Inter e Roma, da parte del giocatore nerazzurro Visentin.


Si dice . . . “ad usum Delphini”

L'espressione in latino “ad usum Delphini” indica la modifica di un testo, un discorso, una testimonianza, di cui si è alterato o falsificato il contenuto originale per raggiungere certi scopi, per esempio di propaganda. La locuzione nasce in Francia nel XVII secolo. Ad usum Delphini venne stampigliato sulla copertina dei testi classici greci e latini, destinati all'istruzione del figlio del re Luigi XIV e di Maria Teresa d'Austria, Luigi (1661-1711) detto Gran Delfino, (ossia principe del Delfinato), che era il titolo dell'erede al trono di Francia. I testi venivano epurati dei passaggi ritenuti scabrosi o inadatti, alla giovane età del Delfino. In seguito la locuzione passò a indicare l'edizione di un testo semplificato, per adattarlo agli allievi delle scuole inferiori oppure un referto medico “attenuato”, per non far capire il vero contenuto al paziente.



Si dice . . . “fare le scarpe a qualcuno”


Vuol dire manovrare dietro le spalle contro il prossimo fingendosi amico, con l'intendo di scalzarlo dal posto che occupa o comunque di toglierlo di mezzo. Il modo di dire è tipicamente italiano – non ha riscontri all'estero – ed è molto antico. Lo si trova già in documenti del XIX secolo. Qualche storico della lingua lo fa risalire al vecchio gergo militaresco da caserma, ma secondo l'ipotesi più plausibile, la frase fatta avrebbe in origine il significato di seppellire, di sbarazzarsi di qualcuno in senso fisico, riferendosi all'abitudine in uso nel sud Italia del '600, di far calzare ai defunti di alto rango delle scarpe confezionate per l'occasione, in modo da affrontare al meglio l'ultimo grande viaggio. Di qui il senso metaforico che conosciamo.



sabato 16 aprile 2016

E' il Vaticano il Paradiso del vino.

In Francia è tradizione comprare qualche cassa di vino quando nasce un bambino. È il vino delle grandi occasioni, da bere nei momenti importanti, inclusa ovviamente la nascita. Potremmo quindi credere che la Francia sia il primo stato per consumo di vino pro capite? E invece no. Leggete qual'è quell'insospettabile paese, patria incontrastata degli imbriagoni.

Francia e Italia si contendono ormai da tempo il primato per la produzione di vino, vantando non solo una tradizione per la produzione, ma anche per il consumo. Il nettare degli dei è innegabilmente legato alle tradizioni dei due paesi, tanto che sembra naturale immaginare i loro abitanti tra i maggiori consumatori.
Se però consideriamo i dati della ricerca del California Wine Institute, (novembre 2015), i risultati potrebbero lasciare sorpresi. Nella classifica per la consumazione pro capite di vino, la Francia si trova soltanto al sesto posto. E l'Italia? Non è nemmeno tra i primi 10. Figura infatti al 13º posto, con 33,30 litri di vino pro capite consumati.
È invece il Vaticano, lo stato più piccolo del mondo, a detenere il record. Nel 2014 i suoi abitanti ne hanno bevuti ben 54,26 litri ciascuno in media, mantenendo un buon distacco con il secondo classificato, l' Andorra, dove la consumazione pro capite è stata invece di “soli” 46,26 litri.
Dato che durante la messa viene utilizzato simbolicamente soltanto un sorso di vino, pensare che lo Stato della Chiesa utilizzi la bevanda soprattutto ad uso cerimoniale, è da escludersi. Inoltre, il vino utilizzato durante le funzioni religiose, deve essere ottenuto da uva pura e non essere mischiato con altre sostanze, secondo il Codice di Diritto Canonico. Non è, insomma, il vino che compriamo al supermercato.
L'alta consumazione può però trovare comunque una spiegazione, nella conformazione demografica della sua popolazione: l'età. L'età media più elevata, la maggioranza di uomini, l'alto livello di educazione e la tendenza a condividere i pasti, sono infatti fattori correlati al consumo di vino. Lo stesso California Wine Institute, rivela inoltre che i dati
potrebbero essere alterati dalle vendite nel supermercato Vaticano; qui, infatti, la raffinata selezione di vini, proveniente anche da cantine importanti, insieme alla speciale tassazione del paese, che risulta molto più bassa di quella italiana, comportano vendite più alte di bottiglie, che presumibilmente non verranno tutte consumate all'interno dello Stato.
Tra i primi paesi di medie dimensioni, contiamo poi la Croazia, al terzo posto e la Slovenia al quarto.
l'Italia si lascia quindi sorpassare anche da Portogallo, Svizzera, Macedonia e Moldavia. Ma perché? Si potrebbe pensare che forse gli italiani preferiscono la qualità, rispetto alla quantità. Tuttavia questa non può essere la risposta alla domanda; difatti, la consumazione scende verso il basso per il vino di tutti i livelli.
Forse, allora, il consumo di vino è semplicemente calato come specchio dei cambiamenti della società, dalla frantumazione della famiglia, (sulla cui tavole il bicchiere di vino rosso aveva un posto fisso durante i pasti condivisi), all'aumento del controllo automobilistico, così come la conquista da parte del vino italiano dei mercati americani e anglosassoni, che hanno portato cambiamenti nelle caratteristiche del vino in bottiglia, per scalare la vetta degli export.
O più semplicemente gli italiani sono più attenti alla ... salute!


sabato 9 aprile 2016

Attori e milioni un'offesa alla miseria.

Se fosse vero che il danaro non fa la felicità, come sostengono coloro che ne hanno tanto e misericordiosamente vogliono far sentire meglio resto del mondo, quella platea di stelle che la serata dell'Oscar ha illuminato la fine di febbraio, sarebbe stata un congresso di celeberrimi depressi e infelici.
È quindi con profonda pietà e umana solidarietà che torniamo, per un'ultima volta, nel grande teatro sull'Hollywood Boulevard di Los Angeles per frugare nei portafogli e nei borsellini delle celebrità e per vedere a chi si potrebbe assegnare l'Oscar per "La Grande Ricchezza".
Tra gli infelici, ma con ancora qualche sprazzo di felicità, incontriamo Matthew McCounaghey, vincitore dell'Oscar come migliore protagonista, per il film Dallas Buyer Club : valeva, fino a ieri, 65 milioni di dollari, secondo i calcoli della Cnbc, la rete di informazioni economiche e finanziarie più seguita d'America. Una buona cifra, ma destinata a raddoppiarsi entro la fine del 2014.
Sullo stesso gradino di ricchezza, a 65 milioni, Woody Allen, (che era presente in spirito ma non in persona, attraverso il suo Jasmine Blue), Alec Baldwin e Ben Affleck. Decisamente meglio, dunque molto più infelici, a 130 milioni di "portafoglio", Robin Williams, Al Pacino, Ashton Kutcher, (ex marito di Demi Moore e l'attore che ha incarnato Steve Jobs nella biografia del creatore di Apple), e Julia Roberts.
Ancora più in alto nella scala del denaro, a 160 milioni, sono appollaiati George Clooney, Denzel Washington, Bruce Willis, Samuel Jackson, John Travolta, Drew Carrey e la signora Kutcher, Demi Moore, che forma con l'ex marito una coppia di facoltosi infelici.
Anche per rispetto di anzianità, meglio fa Robert De Niro, con i suoi 185 milioni di "asset", che è il valore della propria ricchezza al netto dei debiti e delle tasse, eppure ancora di più valgono Will Smith e Tom Cruise con 250 milioni in tasca.
Ma il nome più sorprendente e inatteso in questa classifica dei conti in tasca ai "glitterati", ai personaggi che brillano di "glitter", di paillettes e lustrini sotto i riflettori, non era nella platea dei premiati, dei nominati, delle celebrità.
La più ricca del reame era sul palcoscenico. Era la conduttrice del circo, Ellen DeGeneres, la apparentemente bionda, orgogliosamente sposata dal 2008 con l'attrice Portia De Rossi, che per tre ore ha guidato la massima fiera mondiale delle vanità.
Ellen, è la prova vivente che i soldi veri, le borse più ricche, oggi sono in televisione, più che nel cinema. I suoi guadagni come presentatrice, produttrice di programmi, sceneggiatrice e doppiatrice di film d'animazione arrivano a 65 milioni all'anno - una cifra da superstar sportiva - e i suoi "asset", i suoi investimenti e risparmi, superano i 250 milioni.
Anche se nessuno fra questi super milionari della "Grande Ricchezza" da spettacolo è nato ricco e famoso, la storia della DeGeneres è particolarmente notevole. È nata 56 anni or sono nella provincia più provincia della Louisiana, il profondissimo sud, in una cittadina di 100.000 abitanti chiamata Metairie, che ha un solo pregio : quello di essere un sobborgo della vivacissima New Orleans.
Nella sua Louisiana, Ellen aveva lavorato come cameriera nella catena di ristoranti TGI Friday, come cassiera nei grandi magazzini J.C. Penney, come barista e come imbianchina. Soltanto nel tempo libero, e naturalmente gratis, aveva cominciato a recitare monologhi comici nei locali di New Orleans, dove fu notata e poi provata negli show televisivi nazionali, sempre affamati di nuovi talenti.
Avendo quindi espresso tutte le possibili solidarietà e pietà umane per quegli infelici schiacciati dai loro soldi nelle poltroncine di platea, credo si possa esprimere qualche dubbio sulla più ricca di tutti, su Ellen De Generes. Per una donna che si è guadagnata ogni dollaro di quei 250 milioni, arrampicandosi sugli scaffali dei negozi di abbigliamento e sulle impalcature dei pittori, il ricordo della fatica fatta per arrivarci deve essere il migliore antidepressivo.
E lei potrebbe spiegare meglio di altri, che è ora di smetterla di prendere in giro chi i soldi non ce li ha.


Vittorio Zucconi

sabato 2 aprile 2016

Perchè si chiama Italia?

L'origine del nome Italia, secondo autorevoli fonti greco-antiche come il Tucidide e Strabone, (V secolo a.C.), e il filosofo Aristotele, (IV secolo a.C.), verrebbe da Italo, re degli Enotri, una popolazione stanziatasi nel sud Italia fin dal XII secolo a.C. forse proveniente dai Balcani meridionali.
Italo, uomo saggio e accorto, avrebbe trasformato gli Enotri da nomadi in agricoltori stanziali, stabilendo il suo dominio nei territori dell'attuale provincia di Catanzaro e fornendo leggi e organizzazione sociale. Avrebbe anche fondato la città di Pandosia Bruzia, forse l'attuale Acri.
Per lui gli Enotri vennero chiamati Itali e i coloni greci designarono come Italia il sud della Calabria. Il nome fu poi esteso a tutto il meridione e nel secolo III a.C., dopo le conquiste romane, definì la penisola fino al fiume Rubicone.
Dal 49 a.C., quando anche la Gallia Cisalpina, (oggi Pianura Padana), ebbe cittadinanza romana, il nome Italia corrispose al territorio attuale.
M. B.