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giovedì 21 aprile 2016

Modi di dire 25.

Si dice . . . “darsele di santa ragione”

Vuol dire picchiarsi duramente, senza risparmiarsi percosse e violenze, e oggi, in senso figurato, anche avere una disputa verbale aspra fino alla collera. L'origine di questo modo di dire fa riferimento
ai metodi educativi repressivi un tempo diffusissimi nei collegi, nelle scuole, nei luoghi di pena e anche fra le mura domestiche che, senza particolari remore, prevedevano punizioni psicologiche e corporali anche violente. Questi maltrattamenti venivano giustificati ideologicamente da un superiore scopo educativo e persino di elevazione spirituale, (la “santa ragione”), che dovevano far superare il rifiuto psicologico dell'educatore di far del male a una ragazza oppure a un bambino inermi.


Si dice . . . “non avere né arte né parte”

Si riferisce a chi non dimostra qualità e competenze particolari e nemmeno dispone dei mezzi necessari per emergere nella vita: è insomma un povero diavolo. L'origine del motto è medioevale. Il termine “arte” fa riferimento alle corporazioni che riunivano i lavoratori in base al loro mestiere e alle attività; per parte si deve intendere il “partito”, sia come appartenenza a una parte politica, (che aveva quindi potere nella società), sia come diritto a una eredità patrimoniale. Pertanto, non possedere né arte né parte, equivaleva a non poter avere alcun ruolo nella comunità di quel tempo.


Si dice . . . “fare filotto”

Significa ottenere dei risultati positivi attraverso una serie di eventi in successione, come chi in uno sport vince molte partite consecutive, oppure chi ottiene il massimo dei voti in una sequenza di esami universitari. Il modo di dire deriva dal gioco del biliardo detto “all'italiana”, in cui “fare filotto”, vuol dire fare abbattere dal pallino o dalla palla avversaria una fila di piccoli birilli allineati al centro del tavolo in numero di 5, o di 9 nella “goriziana”. Tutto ciò conferisce a chi lo effettua un buon punteggio in partita.


Si dice . . . “prendere per il naso”

L'espressione “prendere o menare per il naso” qualcuno significa buggerarlo, farsi beffe di lui. Il primo significato della locuzione era un altro ossia: “Condurre in giro qualcuno e fargli fare ciò che si vuole”, es: “Mi tiri come un bufalo pel naso”, Ludovico Ariosto, Satire. E qui l'origine del modo di dire che deriva dall'uso, già presso gli antichi greci, di condurre i bovini tirandoli per l'anello infilato nel naso. Ciò consente infatti di condurre facilmente l'animale, indotto dal dolore ad assecondare i movimenti.



Si dice . . . “fare cilecca”

Vuol dire fallire, fare fiasco, venire meno nel momento in cui si dovrebbe meglio figurare. Nel gergo militare si riferisce ad armi che si inceppano al momento di sparare; si usa anche per alludere a una mancata prestazione sessuale. In origine il termine “cilecca”, o scilecca, significava beffa, sberleffo, (forse dal latino illicium, “adescamento”, o dal tedesco schielauge, “occhio strabico”, nel senso di fare gli occhi storti a mò di presa in giro), e si riferiva in particolare alla burla consistente nel ritirare all'ultimo momento la mano con la quale si porge qualcosa. Quindi per estensione un disilludere, un non mantenere una promessa.



Si dice . . . “una rondine non fa primavera”

Il detto popolare “una rondine non fa primavera” ha il seguente sottinteso: un singolo evento positivo non basta a far trarre conclusioni generali favorevoli. Le rondini infatti sopraggiungono in genere in grandi stormi, (i primi ad arrivare in Italia dal NordAfrica e dalla penisola araba in genere sono i balestrucci), segnando l'arrivo della bella stagione. Una sola rondine visibile in cielo può aver perso la cognizione spazio-temporale e dunque restare isolata. Il proverbio è erede della locuzione latina “Una hirundo non facit ver”, ma è di origine greca. Ad esempio nell'opera Etica Nicomachea di Aristotele, (IV sec. a.C.), il filosofo spiega: “Come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno o un breve spazio di tempo non fan felice nessuno”:


Si dice . . . “rompere le uova nel paniere”

Significa rovinare con un proprio intervento, i progetti pazientemente preparati da qualcuno ancor prima che si realizzino. Il modo di dire è di evidenti origini contadine. Il “paniere” citato nel detto infatti, va inteso come la cesta o la cassetta approntata dall'allevatore che le galline ovaiole, a partire dai 4/5 mesi di vita circa, utilizzano come nido per deporre le uova. Le migliori galline, che sono in grado di deporre un uovo al giorno per un anno e mezzo, quando si pongono alla cova nel paniere, lo fanno per circa 20 giorni. Ecco quindi che l'espressione richiama il distruggere qualcosa, prima che si concretizzi.


Si dice . . . “zona Cesarini”

L'espressione indica gli ultimi momenti di una partita di calcio o di una sfida sportiva e, per estensione, la fase finale di un evento emozionante. La locuzione fu coniata dal giornalista Eugenio Danese con riferimento a Renato Cesarini (1906-1969), attaccante oriundo argentino della Juventus e della Nazionale. Cesarini segnò due gol al 90' nel giro di sette giorni e la seconda fu la rete della vittoria (3-2) per gli azzurri dell'incontro di Coppa Internazionale Italia-Ungheria, il 13/12/1931. La domenica successiva Danese descrisse sul giornale “Il Tifone” un gol avvenuto in “zona Cesarini” riferendosi a una rete decisiva segnata all'89' della partita di campionato tra Ambrosiana/Inter e Roma, da parte del giocatore nerazzurro Visentin.


Si dice . . . “ad usum Delphini”

L'espressione in latino “ad usum Delphini” indica la modifica di un testo, un discorso, una testimonianza, di cui si è alterato o falsificato il contenuto originale per raggiungere certi scopi, per esempio di propaganda. La locuzione nasce in Francia nel XVII secolo. Ad usum Delphini venne stampigliato sulla copertina dei testi classici greci e latini, destinati all'istruzione del figlio del re Luigi XIV e di Maria Teresa d'Austria, Luigi (1661-1711) detto Gran Delfino, (ossia principe del Delfinato), che era il titolo dell'erede al trono di Francia. I testi venivano epurati dei passaggi ritenuti scabrosi o inadatti, alla giovane età del Delfino. In seguito la locuzione passò a indicare l'edizione di un testo semplificato, per adattarlo agli allievi delle scuole inferiori oppure un referto medico “attenuato”, per non far capire il vero contenuto al paziente.



Si dice . . . “fare le scarpe a qualcuno”


Vuol dire manovrare dietro le spalle contro il prossimo fingendosi amico, con l'intendo di scalzarlo dal posto che occupa o comunque di toglierlo di mezzo. Il modo di dire è tipicamente italiano – non ha riscontri all'estero – ed è molto antico. Lo si trova già in documenti del XIX secolo. Qualche storico della lingua lo fa risalire al vecchio gergo militaresco da caserma, ma secondo l'ipotesi più plausibile, la frase fatta avrebbe in origine il significato di seppellire, di sbarazzarsi di qualcuno in senso fisico, riferendosi all'abitudine in uso nel sud Italia del '600, di far calzare ai defunti di alto rango delle scarpe confezionate per l'occasione, in modo da affrontare al meglio l'ultimo grande viaggio. Di qui il senso metaforico che conosciamo.



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