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venerdì 3 giugno 2016

Un triste compleanno per la Repubblica.

Qualche alzabandiera davanti alle Prefetture, la maxiparata militare, i consueti documentari (non si spaventino i fan dei reality e delle soap: è tutta roba destinata ai palinsesti di Rai 3, La7 e dei canali tematici, perciò la “dose” quotidiana di cattivo gusto è al sicuro anche per oggi) e quasi nient’altro. La Repubblica fa settant’anni e arriva al traguardo piuttosto malandata. E celebra questo compleanno, importante per qualsiasi signora che si rispetti, in sordina. 
Già: le Amministrative, imminenti in tutta Italia, le hanno tolto il proscenio col loro carico di volgarità degne di una sagra paesana. Come se non bastasse, la Signora Repubblica è pure minacciata da una tentata riforma costituzionale che, se attuata, ridurrà la partecipazione democratica in alcuni settori fondamentali: i referendum e i disegni di legge d’iniziativa popolare. Nata tra le passioni di una guerra civile ancora in corso, la Repubblica è dovuta crescere in fretta e assumersi le pesanti responsabilità di essere mamma di 50 milioni di Italiani poveri, riottosi e, a volte, ingrati. Più celebrata che amata, la Repubblica, che vinse per un pelo sulla delegittimata Monarchia, restò sostanzialmente indifferente alla Dc (a cui era persino, tolti alcuni illuminati vertici, indifferente lo Stato) e fu ritenuta “provvisoria” dal blocco popolare che la considerò per anni l’anticamera provvisoria per il socialismo, finché non fu chiaro che una rivoluzione bolscevica da noi era impraticabile. In compenso, l’unico partito che si definiva Repubblicano non sfiorò mai il 5% dei consensi. Eppure c’è da ammirarla, la nostra Repubblica. Per più di un motivo. Laica in un paese cattolico, è riuscita a gestire equilibri altrove impensabili per modernizzare il Paese. Ha mantenuto con discrezione il senso dell’identità nazionale a dispetto di una classe dirigente che non riusciva a parlare di Patria senza arrossire. Ha persino inglobato forze politiche e culturali legate a potenze straniere e avverse a ogni senso di appartenenza che non fosse ideologico. Dopo settant’anni così’ sfido chiunque a non avere le rughe. 
Eppure questo sottovalutato compleanno ha una sua importanza capitale, che solo le nostre istituzioni culturali riescono a sottovalutare a ad affogare nella melassa della retorica. Il 2 giugno 1946 andarono a votare tutti gli italiani, donne comprese. Il referendum sul destino dell’Italia unì gli italiani, laddove la guerra civile li aveva divisi. Si preferisce, per innata vocazione alla retorica virilista, ancora evocare l’immagine del partigiano col mitra. E si dimentica che la democrazia, quella che vota e non spara, nacque allora. Vi parteciparono in tanti. Compresi i reduci di Salò, che votarono massicciamente per la Repubblica in spregio alla Monarchia “traditrice” (anche gli sconfitti hanno una retorica, che è più virulenta di quella dei vincitori) e perché, seppure tra le bombe e tra le brutalità, un’esperienza repubblicana l’avevano avuta. Vi parteciparono i contadini del Sud, i grandi esclusi dalla politica nazionale, e gli operai delle fabbriche del Nord, che in politica c’erano entrati a spallate. L’esito di quel referendum legittimò l’Assemblea Costituente, la migliore istituzione rappresentativa (per qualità umana, spessore politico e livello culturale) che l’Italia unita abbia avuto. Ricordiamocele, queste cose. Soprattutto ora che un ex sindaco di provincia si appresta a metter mano alle istituzioni con metodi da lobbista e con una faciloneria che sarebbe sospetta persino in un amministratore di condominio. Viva la Repubblica!


Saverio Paletta

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