Care
amiche e cari amici siamo già arrivati alla fine di questo 2017 e il
2018 incalza. Un anno praticamente volato via.
Ammetto
di essere stato parecchio assente soprattutto qui sul blog; molti
meno post pubblicati e molte meno condivisioni, anche se ciò,
fortunatamente, non si è tradotto in meno contatti, anzi.
Questo
è il motivo del perché non vi ho scritto i consueti auguri di
Natale; sono tornato il 23 dicembre sera dalla Slovacchia e di tutto
avevo voglia fuorchè di scrivere.
I
motivi sono due e sono molto semplici; il primo è che sono
completamente immerso nel lavoro e le poche ore che mi concedo di
break, certamente non mi invogliano a scrivere.
Il
secondo è che la nostra cara Barbara, impareggiabile collaboratrice
del blog e anche di est consulting, si è felicemente laureata e per
cui anche lei, pressata dagli impegni di studio, ha dovuto
drasticamente ridurre il tempo a nostra disposizione.
Ma
sono comunque felicissimo per lei, perché si appresta a diventare il
miglior avvocato del foro di Rovigo.
Per
quel che mi riguarda non posso che essere più che contento e
soddisfatto dell'anno appena trascorso. Un anno difficile certamente,
ma sicuramente positivo. Ormai ci siamo abituati alle difficoltà,
soprattutto chi è costretto ad operare in Italia. Io all'estero mi
salvo, ma lo stress non perdona, è diventato una costante.
Probabilmente noi abbiamo assimilato quella giusta quantità di
stress che ci aiuta a rimanere giovani. Finito lo stress,
invecchieremo all'improvviso. Boh!? Chissà!
Spero
che anche per voi sia stato un anno fruttuoso e denso di
soddisfazioni, con pochi dispiaceri e malincuori.
Vi
annuncio che il 2018 sarà pregno di novità soprattutto
professionali e una ve la voglio già annunciare: est consulting, in
virtù della sua denominazione, si appresta ad andare sempre più a
est. Ma per il momento mi fermo qui.
Da
parte mia vogliate accettare il mio più sentito augurio di un
FORMIDABILE e STREPITOSO anno nuovo 2018, a Voi e a tutte le persone
che amate.
Un
augurio particolare a Diego, superlativo tecnological supporter del
blog e del sito est consulting.
Che
c’entrano i padri della teoria dell’élite con gli assetti della
finanza globale, legale o meno che sia? Inoltre: il declino della
politica, che si traduce in un’incapacità di incidere delle (e
nelle) democrazie è un declino tout court o è determinato (o
quantomeno condizionato) da altri fattori? E ancora: esiste davvero
quella che gli studiosi più recenti definiscono superclass,
cioè un ceto dirigente politicamente irresponsabile che gestisce le
sorti della società contemporanea, o è solo dietrologia? Esiste
davvero una lobby o esistono davvero più lobby
che gestiscono in
maniera ferrea il potere reale senza controllo né obbligo di
rendiconto alcuno? Secondo Giorgio
Galli,
il decano dei politologi italiani, e MarioCaligiuri,
il direttore del Master
in Intelligence
dell’Università
dellaCalabria,
queste riflessioni non sono solo l’esito di una subcultura allevata
nel mito della teoria del complotto. Anzi, niente subcultura né
miti. È tutto vero. Questo potere c’è. E siccome non c’è
potere senza potenti, ci sono anche i suoi titolari. I due studiosi
hanno cercato, riuscendoci, di tracciare un identikit della razza
padrona
che si è affermata dalla fine della guerra fredda in Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci
(Rubbettino,
Soveria Mannelli 2017). Alcune succose anticipazioni sul volume sono
uscite nel corso del convegno di presentazione del libro svoltosi il
23 novembre nella sala Nilde
Iottidi Montecitorio e al quale hanno partecipato, oltre i due autori, il
questore della Camera StefanoDambruoso,
che ha portato i saluti istituzionali, il sottosegretario alla
Giustizia Cosimo
Ferri
e il direttore del Centro
studiamericaniPaolo
Messa,
che hanno relazionato sul libro, e l’editore FlorindoRubbettino,
nelle vesti di moderatore. A proposito di dietrologie, val la pena di
citare la frase che, a mo’ di slogan, condensa il contenuto del
volume: «Il nome di James Stanley significherà molto poco eppure è
la prima delle 65 persone che realmente influenzano i destini del
pianeta». Infatti, lo si trova a stento su Google,
dove è possibile reperire i dati ufficiali delle sue attività
finanziarie. Come a dire che, nella società dell’informazione
globalizzata, il potere vero tende a nascondersi dietro muraglie di
calcoli e cortine di cifre sparse, dove il fumo dei numeri rivela e
copre la combustione fredda
di un potere ad alta intensità.
A
questo punto è chiaro che la sfida di Galli
e Caligiuri
non è tra le più semplici: tradurre in una cifra scientificamente
apprezzabile un materiale denso ma sfuggente, trattato finora
perlopiù da giornalisti assetati di dietrologia e a caccia di scoop.
«Il
tema di questo libro», ha spiegato Rubbettino
in apertura dei lavori, «non è stato finora trattato a livello
scientifico e nessuno ha posto in evidenza, sempre a livello
scientifico, il peso delle élite finanziarie, che si riproducono per
cooptazione e le cui composizione e consistenza sono sconosciute ai
più».
Tra
questi più,
ovviamente, non ci sono i due studiosi. Ma la forza della finanza è
anche l’esito (o, se si vuole insistere nella dietrologia, anche la
causa)
della debolezza della politica. Questo aspetto perverso dei rapporti
di potere è stato richiamato, con accenti diversi, da Messa
e Ferri.
Infatti, secondo il direttore del Centro
studi americani
«nel volume è implicito il forte appello alla politica perché si
riappropri del suo primato e contribuisca a ridurre le diseguaglianze
sociali». Secondo il sottosegretario, invece, il punto di forza di
Come
si comanda il mondo
è «la sua funzione pedagogica, indispensabile nella formazione e
informazione dei cittadini delle democrazie moderne». Il sottinteso
di Ferri
è tragico, sebbene espresso in maniera elegante: il potere
invisibile tende a diventare un potere spesso illegale e, in casi
sempre meno rari, criminale. Non a caso, nella sua lunga carrellata,
il sottosegretario ha insistito sul ruolo delle mafie e di alcune
lobby.
Ma
qual è la ricetta
che distingue davvero Come
si comanda il mondo
rispetto ai tanti volumi dai titoli sensazionalistici che ingombrano
interi scaffali delle librerie?
Giorgio
Galli
ha svelato almeno uno degli arcani:
«Non è vero che il potere sia nebuloso e difficile da individuare,
poiché risiede in gran parte nel nocciolo del capitalismo mondiale,
che si identifica nei dirigenti apicali delle cinquanta
multinazionali finanziarie individuate da uno studio del Politecnico
di Zurigo, su cui si basa il nostro libro». Il che vuol dire due
cose: che il potere è sempre visibile per chi lo sa cercare e che
cercare e conoscere il potere è il miglior modo per non subirlo.
E
infatti, ha aggiunto Galli,
«il nostro lavoro non intende demonizzare, ma capire e aiutare a
capire chi sono effettivamente le élite che determinano le scelte
politiche di fondo, come si relazionano e come si formano».
La
cassetta degli
attrezzi
utilizzata dai due studiosi è prestigiosa: è la teoria delle élite
elaborata tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’30 da Gaetano Mosca,
Vilfredo Pareto
e Robert Michels.
Ed è proprio l’applicazione dei criteri euristici elaborati dai
tre fondatori della scienza politica moderna al mondo dell’alta
finanza la carta vincente del volume. Questa scelta impegnativa
sottende anche, almeno per quel che riguarda l’Italia, una tirata
d’orecchi alle cordate finora dominanti nel mondo accademico, che
spesso hanno spinto nell’oblio, magari dopo averlo contestato sulla
base di pregiudizi ideologici, questo importante filone del pensiero
politico, con il risultato di spuntare le armi non solo alla scienza,
ma addirittura alla politica.
Caligiuri
ha concluso i lavori con una frase ad effetto: «Estrarre il segnale
dal rumore». Ovvero «imparare a identificare la realtà nel marasma
di informazioni spesso errate, confuse e artatamente distorte che
caratterizzano la società attuale in cui la comunicazione globale e
in tempo reale si traduce spesso in disinformazione».
Serve
altro? Probabilmente sì: leggere Come
si comanda il mondo per
capirne di più su chi, quasi senza farsene accorgere, ci comanda per
davvero.
Facciamo
finta che Tangentopoli
non
ci sia stata. E non per eludere una questione morale che nessuno,
soprattutto i più accaniti forcaioli, è riuscito a risolvere e che
ora si ripresenta al peggio.
Ma
perché il craxismo e la stagione del potere socialista non possono
risolversi in quell’inchiesta giudiziaria, che ha promesso tanto,
mantenuto poco e cancellato in maniera impropria una classe politica
intera. Con un solo risultato certo: il Psi
pagò
per quasi tutti e più di tutti colpe collettive. A tacere del fatto
che chi è venuto dopo e si è fatto strada a spallate in nome delle
Mani
Pulite (tali
soprattutto per incapacità di fare ed esclusione dal potere) è
riuscito a far peggio.
Ecco, non impegniamoci
in questa discussione e parliamo, invece, di politica. In questo
caso, lo impongono le date e le ricorrenze, che l’editoria celebra
con la consueta, necrofila precisione.
Al
riguardo c’è da dire che stiamo per assistere una curiosa
coincidenza di tre anniversari: l’imminente centenario della
Rivoluzione
russa,
il quarantennale della tragedia di Aldo
Moro,
che scatterà a partire da marzo, e, infine, il quarantennale del
Vangelo
Socialista,
il saggio con cui Bettino
Craxi,
alla fine d’agosto del 2008, operò, anzi dichiarò lo strappo
definitivo tra il suo Psi,
ereditato pressoché ai minimi termini dalla segreteria di FrancescoDe
Martino,
e quella parte della tradizione marxista rivista e corretta ad uso
rivoluzionario da Lenine
riadattata alla situazione italiana (ma non solo…) da Antonio
Gramsci.
La
storia è piuttosto nota: Craxifu
sollecitato nell’agosto ’78 da Livio Zanetti,
all’epoca direttore de l’Espresso,
a replicare a EnricoBerlinguer,
che aveva rilasciato in quel periodo un’intervista a Eugenio
Scalfariper
Repubblica.
In
quell’intervista l’allora (celebre e amato) segretario del Pci
confermò
il legame tra l’ideologia del suo partito e il leninismo, sebbene
riveduto e corretto per un improbabile uso occidentale. O meglio,
ammorbidito quel che a giudizio del grande leader sardo bastava per
non terrorizzare i ceti medi italiani che pure, in buona parte,
avevano scommesso sul compromesso storico e sulla conseguente,
sperata, svolta moderata del più grande partito comunista
dell’Occidente.
Craxirispose
firmando un saggio commissionato qualche tempo prima a Luciano
Pellicanie
dedicato all’anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon.
L’articolo uscì il 27 agosto e fu una bella mazzata per molti
italiani, che ancora affollavano le spiagge.
Intitolato,
appunto, Il
Vangelo Socialista,
il saggio diede la stura a un dibattito, che sarebbe impazzato fino a
metà settembre su tutte le principali testate italiane, non solo di
sinistra.
Il
paragone con l’attualità risulta decisamente ingeneroso: oggi, pur
di vendere qualche copia sulle spiagge, i giornali e i periodici si
dedicano alle retrospettive della cronaca nera, di cui riscavano i
cold case più truci e pruriginosi, e, quando ne parlano, riducono la
politica a gossip. Allora, in quella torrida estate di 40 anni fa,
tra i topless patinati di Novella
2000 e
le note degli Homo
Sapiens,
gli italiani si dilettavano a scorrere e commentare il dibattito,
raffinato e furibondo al tempo stesso, ingaggiato dalle migliori
firme della cultura (politica e non solo) italiana sulle colonne de
L’Unità
e
di Avanti!
(quelli
veri), de Il
Manifesto,
del Corrierone,
di Repubblica,
ma anche di Rinascita,
de Il
Tempo e
de Il
Giornale Nuovo.
E non era roba da poco: in quell’occasione incrociarono le armi,
anzi le penne, big come Leo
Valiani,
Giuseppe
Bedeschi,
NorbertoBobbio,
Luigi
Pintor,
Claudio
Martelli,
lo stesso Luciano
Pellicanie
Luciano
Cafagna.
Scusate se è poco.
Oggi
è possibile godersi di nuovo tutta la querelle grazie all’iniziativa
di Nunziante Mastrolia,
politologo e docente di Geografia
politica alla
Luiss,
che ha ripubblicato tutti gli articoli in Il
Vangelo Socialista (Licosia,
Ogliastro Cilento, 2016). Quest’antologia, aggiungiamo per
completezza, riprende quella, ormai introvabile, curata nel ’78 da
Claudio
Accardi per
la milanese Sugarcoe
intitolata Pluralismo
o leninismo.
Ma
qual è il senso dell’operazione di Mastrolia?
Di sicuro il gusto per il vintage fa la sua brava parte. Ma c’è da
dire che il dibattito ritrova una sua particolare attualità grazie
alla crisi della sinistra odierna, priva letteralmente non solo di
concrete possibilità operative, ma anche di riferimenti culturali
concreti e convincenti.
Discettare
di socialismo, socialdemocrazia e leninismo e leggerli, come fece il
duo Craxi-Pellicani,
come elementi antitetici di un’unica tradizione culturale, allora
aveva un senso fortissimo: significava ricordare all’opinione
pubblica che la sinistra era un’entità politica plurale, a
dispetto anche di una certa lettura gramsciana canonizzata dalPcie
di cui Berlinguerera
nei fatti prigioniero,
più che compatibile, in alcune sue componenti, con le esigenze delle
democrazie occidentali.
Detto altrimenti: il socialismo poteva
realizzarsi nei sistemi liberali non solo senza spargimenti di sangue
(che anche il Pci,
va detto, aborriva), ma anche senza distruggere le garanzie dello
Stato di diritto elaborate dalle dottrine borghesi. Superare
la
liberaldemocrazia, insomma, non voleva dire distruggerla.
Mastrolia,
al riguardo, svolge un’ineccepibile operazione
verità nella
sua corposa Introduzione:
ricorda a tutti come il Berlinguerche
riteneva invece il leninismo compatibile con le democrazie non possa
essere considerato un riformista, ma, più semplicemente, fosse un
ostaggio. Della tradizione migliorista
inaugurata
da Palmiro
Togliatti(e
dalla rilettura togliattiana di Gramsci)
e della situazione internazionale dell’epoca, in cui l’Urssviveva,
grazie anche alla debolezza dell’amministrazione Carter,
l’ultima fase di espansione geopolitica, nella quale, così
avrebbero in seguito confermato i rapporti dell’intelligence
statunitense e non solo, il Pci
era
considerato ancora una pedina fondamentale (ma senza scavare troppo
negli archivi, si possono trovare conferme di questa situazione nelle
opere ponderose diValerio Rivae
di Viktor Zaslavskij).
Parlare di riformismo, in questo stato di cose - in cui il Pciera
ostaggio dei propri rapporti internazionali, forse non più di
sudditanza ma comunque di forte condizionamento, e la sua classe
dirigente prigioniera di una buona fetta della base e dei quadri –
ancora oggi risulta un azzardo.
Mastrolia,
basandosi sulla rilettura craxiana di Proudhon,
conviene su un fatto essenziale: anche nella versione ammorbidita di
Berlinguer,
il leninismo restava incompatibile con il nostro sistema
costituzionale, che inquadrava l’Italia nelle democrazie
occidentali ad economia capitalistica, basate sul pluralismo politico
ed economico. A riprova di ciò, il professore della
Luisscita
gli articoli 41 e 42 della Costituzione,
che tutelano la libertà d’impresa e la proprietà privata.
In
realtà la situazione è meno netta di come la dipinge Mastrolia:
è vero che la libertà d’impresa è tutelata dall’articolo 41,
ma è altrettanto vero che la stessa norma subordina questa tutela
alla funzione
sociale dell’impresa;
l’articolo 42, invece, tutela la proprietà solo in maniera
indiretta, non la definisce come diritto e rimanda ogni
specificazione alla legge ordinaria. In breve, come hanno argomentato
non pochi giuristi di vaglia, a partire da Stefano Rodotà,
queste norme risultano sostanzialmente ambigue, perché da un lato, è
vero, ancorano l’Italia ai sistemi occidentali, ma, dall’altro,
contengono clausole a favore di ipotesi di democrazia socialista.
Ciò, detto per inciso,
oggi non è un male: se i lavoratori hanno ancora una giurisprudenza
che li tutela lo si deve alla sostanziale indefinitezza di questi due
articoli.
Ma
a rileggerli in prospettiva storica appare chiaro che il primo
compromesso storico, di cui essi sono il frutto, fu stipulato
nell’Assemblea
Costituentee
che quello di Berlinguer
fu
il tentativo, meno forte di quanto non si creda, di aggiornare
quell’accordo con il mondo cattolico.
Mastrolia
non
risponde a una domanda che emerse dal dibattito di allora: come mai
Craxiomise
dal suo album di famiglia figure importanti come Turati,
che pure aveva tanto da dire ai riformisti? Fu semplice sciatteria
dovuta alla fretta oppure c’era dell’altro?
L’accostamento
traProudhone
Carlo
Rossellinon
è sciatto né casuale, ma rifletteva l’intenzione di creare la
rottura con la tradizione leninista non al di fuori ma dal di dentro
della cultura rivoluzionaria. Cioè, il tentativo di recuperare in
una nuova visione politica della sinistra, le critiche al leninismo
senza scivolare direttamente nella socialdemocrazia (e nel suo
problematico e virulento anticomunismo incarnato dal Psdi).
Passare da un anarchico a un liberalsocialista significava rompere
del tutto con una visione ottocentesca del socialismo, all’interno
della quale i riformisti classici avevano invece un ruolo di primo
piano, e rifondare il socialismo su basi libertarie, forse più
compatibili con l’idea del conflitto regolato dalle norme.
Significava,
inoltre, lanciare un’opa sull’area laica (repubblicani, liberali
e radicali), costretta altrimenti a barcamenarsi tra i blocchi di
potere della Prima
Repubblica,
a cui anche ilPsiera
di fatto subalterno.
Significava,
infine, rompere con una tradizione culturale che aveva ingessato la
sinistra e impedito un discorso costruttivo e ampio sulle riforme,
delegate al ruolo, questo sì egemone, della Dc.
Non
è un caso che il dibattito e il relativo affondo socialista sul
leninismo siano arrivati in quell’ultimo scorcio d’estate di
quarant’anni fa: col dramma di Aldo
Moroiniziava
il riflusso delle Br,
che sarebbero state sgominate a partire proprio dai quei mesi, e,
soprattutto, di quella cultura leninista di cui erano impregnate le
formazioni clandestine ed extraparlamentari italiane. L’affondo fu
tanto più insidioso perché portava un messaggio di
ridimensionamento del conflitto, se non addirittura di pace sociale,
a un’opinione pubblica stanca.
Comunque
sia, proprio grazie a quest’operazione Craxi
si
rivelò un leader di prima grandezza, dopo due anni circa di
segreteria caratterizzati soprattutto da esigenze di sopravvivenza e
tentativi di rinnovamento delPartito
socialista.
Chiedersi
perché queste istanze modernizzatrici, efficienti ed efficaci nel
Psi,
non si rivelarono altrettanto dirompenti nelle istituzioni non è
ozioso. Certo è, e lo hanno ribadito alla grande Simona
Colarizie
Marco
Gervasoninel
loro bel La
cruna dell’ago (Laterza,
Roma-Bari 2006), che la parabola di Bettino
Craxinon
può essere ridotta solo a una faccenda di tangenti e corruzione. Ha
pesato molto semmai, il fatto che Craxioperò
in un sistema sclerotizzato e all’interno di una situazione
mondiale, il bipolarismo
della
Guerra
Fredda,
prossima alla fine.
Ma il fallimento del
riformismo socialista resta una lezione inascoltata: non a caso,
tutti i tentativi posteriori di riformare il sistema italiano sono
falliti in maniera impietosa uno dopo l’altro.
Perché riprendere,
allora, un dibattito di quarant’anni fa? Perché no? La lezione,
forse non impartita bene, certo applicata male e di sicuro
inascoltata, partiva da lì.
È il caso, allora, di
riavvolgere il nastro e prendere appunti: i fallimenti dei giganti ci
aiutano a capire meglio i nostri.
Se
mi chiedete qual'è quel cibo, quella pietanza, quel gusto che più
di ogni altro rappresenti il sole, il mare, il profumo, l'aroma
dell'intero bacino del Mediterraneo, risponderei sicuramente l'oliva
ascolana.
Nessun'altra
pietanza racchiude infatti tutto ciò. Nessun altro sapore è in
grado di rappresentare nella maniera migliore quella macro area,
culla di formidabili civiltà e di enormi culture, anche e
soprattutto alimentari. E ancor oggi, nel bene e nel male, il
Mediterraneo ci abbraccia tutti, indistintamente.
Questo
scritto vuole essere una piccola ode, un tributo, a questo
incredibile concentrato di sapore, che non ha eguali in Italia e nel
mondo e che per tanto tempo è stata bistrattata o addirittura
disconosciuta dai tanti. E che all'estero è praticamente
sconosciuta.
L'oliva
ascolana nasce nella notte dei tempi. Ne scrivono addirittura i
romani invasori dell'antica Ascoli, ma ha mantenuto nei secoli la sua
connotazione, la sua particolarità. E perché proprio ad Ascoli?
Semplicemente perché le olive ascolane fresche, le famose olive
tenere ascolane, fin da allora si distinsero dalle altre per un
particolare gusto e morbidezza della polpa.
C'è
chi le vuole di nobili natali perché nate per rispondere al lusso e
a soddisfare il gusto delicato dei nobili; chi invece le vuole di
umili natali, nel senso che inizialmente sembra essere stato il cibo
dei contadini ascolani, che soprattutto d'inverno, terminate le feste
natalizie, utilizzavano gli avanzi di carne pensando bene di
inserirli dentro le olive, che crescevano in abbondanze sui pendii
attorno Ascoli. I famosi 2 piccioni con una fava.
La
ricetta originale del ripieno delle olive ascolane prevede infatti
che si utilizzino 3 tipi diversi di carne – manzo, pollo e maiale –
cotte insieme con gli odori, cioè un trito contenente anche sedano e
rosmarino e macinato almeno 2 volte, per ottenere un impasto
facilmente malleabile.
Ma
non è finita qui! All'impasto viene aggiunto parmigiano, noce
moscata e uova, tanto per rimanere sul leggero.
Ora
arriva il momento dell'oliva. Viene tagliata a elica, a spirale,
un'operazione che richiede una passione certosina e che comunque le
brave “Vergare”, le padrone di casa ascolane, fanno con grande
dedizione e passione. Questo tipo di taglio e preferibile perché
permette all'oliva di mantenere la sua forma originale anche quando
vi è stato inserito il ripieno.
Ora
i laboratori ascolani che forniscono di olive ristoranti e
gastronomie, ovviamente non le tagliano a spirale, bensì a metà,
questo per motivi di semplicità e di razionalizzazione dei tempi, ma
è interessante scriverVi che la ricetta originale prevede proprio
questo tipo di taglio, che sommato ai tempi e alle modalità delle
altre fasi di preparazione, rende l'oliva ascolana uno dei piatti
dalla complicazione e dai tempi di preparazione più alti in
assoluto. E chi l'avrebbe mai detto, vero?
E'
infatti tradizione ascolana che durante le feste principali o quella
del patrono, l'intera famiglia partecipi alla preparazione delle
olive ascolane e in famiglia, si sa, la manodopera non costa nulla.
Quindi
una volta preparato l'impasto e averlo inserito, sempre manualmente,
nelle nostre belle olive tenere ascolane – che preventivamente
avremo lasciato a bagno nell'acqua per almeno 12 ore - le passiamo
prima nella farina, successivamente nelle uova e infine nel
pangrattato.
A
questo punto le nostre “regine” sono pronte per essere fritte.
Immerse per qualche minuto nell'olio ben caldo, il tempo per farle
indorare, vengono poi prese con una cucchiaia forata e posate su una
carta assorbente per eliminarne i residui d'olio.
Dopo
di chè ... pancia mia fatti capanna!
L'oliva
ascolana ha il grande pregio di essere deliziosa sia così calda,
appena tolta dall'olio, che fredda. Anche fredda infatti mantiene il
suo gusto e la sua prelibatezza. Un autentico piacere per il palato
dal gusto unico ed inconfondibile, l'”Oro di Ascoli” come l'ha
definita l'amico Giuseppe Frollo che proprio a l'oliva ascolana ha
dedicato tutta la sua vita di ristoratore e per la quale ha ideato e
realizzato un DVD, dove racconta la sua storia e la sua preparazione,
e al quale anch'io mi sono in parte ispirato nella redazione di
questo scritto.
Quindi
una pietanza complicatissima e laboriosissima da preparare, avete
letto solo una parte dei passaggi, che scaturisce da una grandissima
cultura e rispetto del cibo, che trova pochi eguali in altre parti
d'Italia e soprattutto d'Europa.
E
proprio questa cultura e questo rispetto che fa grande e unica
l'oliva ascolana e la cucina italiana nel mondo.
E
sempre questo aspetto universale mi porta a fare una riflessione:
immaginatevi se l'oliva ascolana fosse lanciata nel mondo intero un
pò come McDonald's ha fatto con gli hamburger.
O
meglio, usando un termine molto in voga negli ambienti del marketing,
se l'oliva ascolana fosse correttamente “brandizzata” e si
lanciassero una catena di ristoranti o fast food nel mondo dove la si
propone in esclusiva, magari affiancandovi le altre golosità fritte
ascolane o italiane in generale.
Sono
sicuro sarebbe un successo, non solo perché oggettivamente buona, ma
perché rappresenta un cibo veloce da consumare, energetico,
appagante e tutto sommato molto più sano di tante altre cose.
Ma
questo rimane solamente un sogno ad occhi aperti di un vecchio
mercante, goloso e sovrappeso come il sottoscritto.
Restando
nella realtà consiglio a tutti di farsi un giro ad Ascoli Piceno,
per gustare le deliziose olive ascolane e per visitare e fare
shooping in una bellissima città.
A
proposito, le olive ascolane si trovano anche in buste sul banco
surgelati dei maggiori supermercati. Non è la stessa cosa ma sono
buonissime e sfizziosissime lo stesso.