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domenica 16 luglio 2017

Bruno Contrada mafioso mafiosissimo anzi no.

Mafioso, mafiosissimo, anzi no. E sul caso Contrada, in seguito alla recente pronuncia della Cassazione, si è scatenata la solita ridda da curva sud, aggravata questa volta dall’ipocrisia per cui i forcaioli di ieri sono diventati i garantisti di oggi o, nell’ipotesi meno pesante, si sono limitati a raccontare la vicenda in maniera secca, come Il Fatto Quotidiano. E c’è da scommettere che non mancherà chi, pur di svelenare, si appiglierà ai soliti discorsi antiformalisti: dirà, cioè, che una cosa sono gli appigli da legulei un’altra i fatti.
Come se la Corte europea dei diritti umani fosse un covo di Azzeccagarbugli. Come se, invece, la giustizia regnasse in Italia. Come se, a proposito di giustizia, la Corte d’Appello di Palermo non avesse preso uno svarione pesantissimo.
No, stavolta c’è una cosa che molti cronisti giudiziari, i quali a vario titolo si sono esercitati (e non poche volte accaniti) su questa storia, non hanno capito: il diritto fa parte del fatto. Perché è un fatto che Bruno Contrada abbia avuto determinati rapporti e abbia parlato con certe persone senza avere la consapevolezza di commettere un reato. E questo senza nulla togliere alla validità di quella nebulosa figura che è il concorso esterno in associazione mafiosa, senza cui molti amministratori infedeli e collusi ora starebbero al loro posto anziché in galera.
È lecita, anzi doverosa, una domanda, a questo punto: come mai c’è voluto tanto perché la Cedu scoprisse che le Corti italiane avevano violato un principio cardine dell’ordinamento giuridico? Si badi bene: non dell’ordinamento giuridico italiano, ma di tutti gli ordinamenti giuridici: il principio di legalità, secondo il quale una persona non può essere condannata o processata per un fatto se la legge non lo prevede prima come reato.
Il concorso esterno in associazione mafiosa iniziò ad essere elaborato in seguito al delitto Lima, uno degli episodi più terribili dell’infame stagione dello stragismo mafioso. «Hanno creato un clima infame», disse allora Craxi. Giusto: di quel clima ne ha fatto le spese anche Contrada. E con lui interi apparati dello Stato. Che andò in frantumi con la classe politica che lo dirigeva e che stava per essere travolta da Tangentopoli.
Contrada finì in manette per accuse relative a fatti che risalivano alla fine degli anni ’80, quando lui non era più il poliziotto che in più di un’occasione aveva messo Palermo a soqquadro, ma un big del Sisde. E questo passaggio impone un altro quesito: è possibile che un poliziotto dimostratosi capace, acuto e brillante, una volta entrato nei servizi segreti impazzisca e, di punto in bianco, si metta a trescare con i soggetti che dovrebbe ammanettare?
Il grande Montanelli, a proposito del caso Contrada, aveva formulato una domanda piuttosto provocatoria: «Si possono applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? Il campo d’azione di questi uomini sono le fogne. C’è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore?».
Sempre per restare agli amarcord giornalistici, è doveroso citare un riferimento importante all’operato del Contrada sbirro. Importante soprattutto perché proviene da fonte insospettabile di tenerezze nei riguardi dell’ex poliziotto: Francesco Viviano, storica firma di Repubblica, una testata non proprio innocentista. Nel suo Il caso De Mauro, il giornalista siciliano mise a paragone l’operato di Contrada con quello di dalla Chiesa durante le indagini sulla scomparsa del celebre cronista dell’Ora di Palermo: in quell’occasione, il poliziotto, che aveva sperimentato anche alcune artigianali intercettazioni telefoniche, si era avvicinato alla verità molto più del giovane e promettente ufficiale dei carabinieri. Ma la reale differenza tra dalla Chiesa, demolito in vita da certa intellettualità gauchiste perché persecutore delle Br e piduista, e Contrada consiste in una sola cosa: la morte. Quella morte, cruenta, che, mutatis mutandis, ha beatificato anche Falcone, osteggiato da vivo in tutti i modi, anche dalle toghe rosse, che fino all’ultimo gliene fecero di tutti i colori.
Contrada, che ha tirato fendenti pesantissimi a Cosa Nostra, forse non è stato ammazzato perché nel suo caso l’ammazzatina non serviva. Già: un agente segreto (ché questo era quando avrebbe commesso le cose per cui fu arrestato) ha abbastanza peccati. Di più: una buona fetta del mestiere consiste nel peccare, sia in relazione ai parametri legalitari, sia in relazione a quelli etici. Le barbe finte hanno una
deontologia a parte, che si riassume in un solo concetto: lealismo, che è poi l’unico metro di giudizio con cui le istituzioni possono e debbono giudicarne il comportamento.
Quindi la domanda, che non si sono posti gli innocentisti (troppo indaffarati a usare Contrada come feticcio per la consueta e non disinteressata crociata contro la magistratura), né i colpevolisti (che in maniera altrettanto non disinteressata hanno preferito raccontare le cose di mafia come un western grossolano) è più sottile: Contrada è stato sleale nei riguardi di quelle istituzioni per conto delle quali doveva rimestare nel fango? Contrada ha parlato coi mammasantissima per dovere o, più prosaicamente, per farsi i fatti suoi? La vera risposta è qui che va cercata, se si vuole davvero scrivere la parola fine all’episodio più paradossale dei fatti di mafia. Il diritto ha stabilito che l’ex capo della Squadra mobile più in trincea d’Italia è innocente. È innocente come sbirro, perché da sbirro nulla gli si è imputato. È innocente come 007, perché il reato contestatogli all’epoca non esisteva.
Di questo non si è accorta la magistratura che lo ha prosciolto solo una volta, ma nel merito, cioè giudicando sui fatti come se il reato ci fosse.
Ma dalla cronaca non è emerso un altro dettaglio, tutt’altro che secondario: condannare Contrada avrebbe significato condannare l’intelligence in quanto tale. E questa considerazione vale molto più, in questo caso, di un tomo di Verri o di Beccaria. Solo una cultura come la nostra, abituata a demonizzare lo Stato a prescindere poteva insistere a oltranza sulla linea della colpevolezza. Ora il sipario è calato e i titoli di coda consistono in un’unica frase dell’ex numero due del Sisde: rivoglio il mio onore.

Saverio Paletta

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